Poca ribellione in giro, ma il manichino perfetto per gli stilisti è sempre il rocker
(29 ottobre 2009) – Un’amica ci invita a una festa intonata con gli anni Sessanta. “Si portava o non si portava allora la cravatta?”. Si portava, eccome se si portava. Basta guardare i Beatles (prima foto in basso), loro che la portavano pure con il nodo scappino per entrare nel cuore di tutti, anche delle mamme. Era un’idea del loro manager Brian Epstein, che ai Favolosi Quattro ordinò di metterla su camicia bianca e giacchetta stretta e arrotondata. Un’idea per fuggire, con la musica, “dai grandi” e dalla “solita vita”, ma nello stesso tempo facendo in modo che lo strappo non fosse troppo doloroso, la diversità meno traumatica.
Fece di meglio Elvis con quel suo ciuffo scolpito, i mocassini scuri, i calzini bianchi e i pantaloni attillati che se non fosse stato per il ciondolare lascivo del bacino, anche quelli sarebbero piaciuti a mamma e papà . Insomma, all’inizio fu giusto per rompere il ghiaccio. Ma il seme piantato cominciò a crescere inesorabile. Poi fu il turno di Jimi Hendrix, Mick Jagger, Pete Townshend, David Bowie, Lou Reed, Bryan Ferry, Sid Vicious. Loro vestirono il glamour, distaccarono il mondo comune dall’Olimpo riservato a divinità rock, indossarono il rifiuto alla guerra, colorarono la libertà dell’amore, ricamarono viaggi acidi e abbottonarono droghe. Fantasia e ideali al potere crearono mode forse meno rassicuranti. Ma, calzate da icone maledette, divennero prima legge, poi verbo e infine manifesto politico.
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E da allora, dai leggendari anni Sessanta e Settanta, rock e moda sono sempre stati legati da un doppio filo d’oro, da cui tuttora è impossibile liberarsi. E le mode diedero vita alle firme che nel tempo hanno saputo cucire su capi e tessuti le proprie etichette. Marcando territori e costumi. Oggi accade il contrario. Oggi che quell’età dell’oro è lontana, oggi che verbo e manifesti politici sono appannaggio di pochi – e in genere mal vestiti – rockettari, le case di moda si affidano ai fenomeni del momento per trasformarli in preziosissimi manichini. In cambio del loro corpo offrono contratti miliardari che appesantiscono tasche già cariche e nutrono l’ego delle rock star. L’importante per tutti è apparire.
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 Meno ribellione in giro, ma il manichino perfetto è sempre l’adone rock. Qualche esempio? Accantonando le star hip hop che ormai posseggono quasi tutte proprie case di moda e sfornano sneackers più velocemente di quanto facciano musica, il reverendo rock Marilyn Manson (ultima foto in basso) è stato modello per Vivienne Westwood per una campagna pubblicitaria con gessati e camicie di seta. Ma anche Dave Gahan dei Depeche Mode ha prestato il suo volto per J. Lindberg insieme a Carl Barat dei Libertines. E non sono sfuggiti al richiamo della moda neppure Pete Doherty, a suo tempo diventato icona simbolo per Dior Homme. O Lenny Kravitz o David Silveria (il batterista dei Korn) che hanno posato per Calvin Klein. Per non dire di Prince, che con Donatella Versace è pure amico da tempo. Invitate, naturalmente, anche le dame: Juliette Lewis e Allison Mosshart dei Kills hanno posato per J. Lindberg. E a queste si aggiungono Shirley Manson, voce dei Garbage, e Dolores O’Riordan, la cantante dei Cranberries (seconda foto), che non molto tempo fa hanno ceduto i loro volti per Calvin Klein.
Morale? Nel sacro nome di un marketing che flirta con la voglia di proporre cliché appetibili per il pubblico. Le rockstar attirano i giovani e i giovani comprano. Ascoltando il rock e indossandolo. Ma, c’è da chiedersi, cosa c’è di sincero oggi in questa commistione tra moda e rock? E cosa pensano i fan duri e puri, quelli per cui il rock è ancora il linguaggio del disagio e dei sentimenti più profondi di intere generazioni.
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Massimiliano Leva
Antonio Amati fa parte della nostra redazione dove lavorano giovani giornalisti pubblicisti neolaureati, SEO copywriting e stagisti. Tutti i redattori scelti vantano esperienze maturate in testate editoriali e provengono da diverse Università .