Mobbing e maternità, in Italia aumentano i casi. Ma cosa è il mobbing, come difendersi e quali sono i diritti delle neo-mamme
Mobbing e mamme. Le due parole, purtroppo, In Italia spesso sono legate fra loro. E’ frequente, infatti, che le neo-madri, una volta tornate al lavoro, subiscano delle discriminazioni.
Questo, nonostante in Italia ci sia una legge a tutela della maternità molto buona ma che, purtroppo, non viene fatta rispettare come si dovrebbe. Dal combinato disposto dagli art 32, 39, 41, 47, 53, 54, 56 del decreto n. 151/2001 risulta che il datore di lavoro deve riconoscere alla mamma lavoratrice tutta una serie di diritti, tra cui ad esempio il congedo parentale, i riposi giornalieri per l’allattamento, i congedi per la malattia del figlio, il diritto al rientro e alla conservazione del posto di lavoro.
Nella realtà, però, sono diritti che molte volte rimangono sulla carta e spesso il datore di lavoro sconfina nel mobbing. Inizia a considerare la mamma un peso di cui cerca di liberarsi con un trattamento che la spinga ad abbandonare l’impiego ma utilizzando strumenti subdoli e mai realmente dichiarati. La vita lavorativa delle mamme diventa così, spesso, un vero inferno.
Alcuni capi cercano di risolvere la questione alla radice, “invitando”, quando sta per avvicinarsi il giorno del rientro al lavoro, le madri lavoratrici a presentare le dimissioni, nonostante in forza dell’art 54 del decreto n.151/2001 viga l’assoluto divieto di licenziamento.
Le donne che segnalano episodi di discriminazione dopo la maternità sono in continuo aumento. Dal rapporto annuale del Centro Donna della Cgil di Milano, emerge che, nel 2011, ha ricevuto 902 richieste di aiuto, il 30 per cento di segnalazioni in più rispetto al 2010. Nella stragrande maggioranza, erano relative a casi di discriminazione sul posto di lavoro.
Delle donne che si sono rivolte al Centro, sei su dieci erano lavoratrici dipendenti vittime di mobbing al rientro in ufficio dopo la maternità. Un dato allarmante che dà la misura della portata del fenomeno in Italia. Le donne discriminate dopo aver avuto un bambino, diversamente da quanto si potrebbe pensare, sono spesso impiegate di alto livello e di età compresa tra i 35 e i 42 anni.
Donne che hanno aspettato di raggiungere una solida posizione lavorativa prima di rimanere incinte ma che, al rientro in ufficio, trovano ugualmente un ambiente ostile da parte del loro capo o dei colleghi e subiscono mobbing. Come si può fare per difendersi? Innanzitutto ricordate che la legge è dalla vostra parte.
In base all’art. 56 del TU a tutela della maternità, al rientro dal congedo di maternità, le lavoratrici hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino,di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all’inizio del periodo di gravidanza o in un’altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino.
Cosa può essere considerato mobbing
Ricordate che si può parlare di mobbing quando ci si trova di fronte ad una serie di comportamenti vessatori: abusi psicologici, angherie, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, etc., prolungati nel tempo e lesivi della dignità personale e professionale e della sua salute psicofisica. L’attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere funzionale all’ espulsione del lavoratore dalla vita aziendale.
La legge italiana non prevede il reato di mobbing ma ammette il risarcimento del danno biologico, associabile a situazioni di mobbing, tanto più che, in base all’art.2087 del codice civile, grava sul datore di lavoro (quindi anche sul capo ufficio che lo rappresenta in azienda) l’obbligo contrattuale di tutelare la salute e la personalità morale del dipendente.
Perciò non subite in silenzio, reagite e, se necessario, denunciate il vostro datore di lavoro. A volte anche solo la minaccia di farlo lo può far desistere dal suo atteggiamento persecutorio. L’importante è che capisca che non siete disposte né a sopportare né a lasciare l’impiego e che con voi spreca energie o rischia di finire in tribunale.