Ci sono ancora molti dubbi che riguardano la morte di Julia Ituma, avvenuta nella notte tra mercoledì e giovedì scorso in Turchia: aveva soltanto 18 anni.
Abbiamo già parlato in queste pagine della scelta di molti sportivi di lasciare la carriera agonistica nel tentativo di tornare a una vita normale. E abbiamo raccontato, e cercato di spiegare, la scelta di chi – come la grande campionessa di tennis Naomi Osaka – al culmine del proprio successo ha preferito dire basta e mettersi da parte.
La morte di Julia Ituma suscita ancora molti interrogativi e non si hanno tutte le risposte su quanto è accaduto. Anche perché forse la risposta alla domanda più urgente, perché, non l’avremo mai.
Julia Ituma, chi era la pallavolista
Diciotto anni, milanese e italiana nati da genitori di origini nigeriane, Julia era una forza della natura. Alta 1.92, un talento naturale che avrebbe potuto eccellere in qualsiasi sport. Aveva scelto la pallavolo che aveva cominciato a giocare fin da bambina nell’oratorio vicino a casa, alla Bovisa. E da qui era partita con il suo carico di speranze di sogni esordendo ad alto livello giovanissima.
Attraverso il Club Italia, la squadra della selezione giovanile azzurra, aveva cominciato a maturare esperienze importanti che l’avevano imposta all’attenzione generale. Aveva vinto l’Europeo Under 19 con una squadra azzurra giovanissima e straordinaria: poi aveva firmato per Novara. Un percorso molto simile a quello di Paola Egonu, oggi la giocatrice più pagata del mondo all’Eczacibasi in Turchia.
Studiava da privatista in una scuola di Milano. Si allenava a tempo pieno. Due volte al giorno: palestra, sala pesi, riunione tecnica e campo. Una realtà molto diversa da quella delle ragazze della sua età. Niente uscite in discoteca, pochissimo tempo libero da dedicare quasi completamente allo studio. Tutti la descrivono come una ragazza estremamente allegra, divertente e motivata.
Cosa è accaduto
Julia viene rinvenuta priva di vita in un piazzale sotto il Volley Hotel di Istanbul dove aveva pernottato con la sua squadra, la Igor Novara, dopo la partita di Champions League giocata proprio contro l’Eczacibasi: 3-0, e piemontesi eliminate. La squadra è tornata in albergo con lo sguardo basso e di malumore. All’andata avevano vinto 3-2 facendosi rimontare due set quando avevano la partita in pugno. Ma i problemi di Julia a quanto pare sono altri.
Dopo cena resa a lungo al telefono a parlare per più di un’ora con un compagno di scuola. C’è una lunga discussione. Rimane per qualche minuto seduta per terra nel corridoio dell’albergo, al sesto piano della palazzina. Testa china sulle ginocchia. Poi entra in camera. Queste sono le ultime immagini della tv a circuito chiuso. Le testimonianze della sua compagna di camera Lucia Varela Gomez non aiutano: “Abbiamo parlato fino all’1.30, ma poi mi sono addormentata”. Lucia è l’ultima che la vede viva.
Gli investigatori turchi, con ben poca delicatezza e senza nessuna tutela della privacy, sbattono la teoria del suicidio in prima pagina, dato in pasto ai giornali e alle agenzie di stampa locale con dettagli e particolari che poi, si scopre, non sono nemmeno lontani dalla verità. Si parla di ultimi messaggi alla squadra e ad alcuni amici di cui nessuno ha traccia. E che quando il telefonino viene riconsegnato alla madre non ci sono. Tutto cancellato.
Lo sgomento e il cordoglio
La salma di Julia torna a Milano sabato pomeriggio accompagnato da Elizabeth, la madre, e Susan, la zia. Ad accoglierla il resto della famiglia. La squadra è già rientrata in Italia, sotto shock. La partita che doveva aprire il cammino di Novara nei playoff viene rinviata. La Federvolley chiede lutto e un minuto di silenzio su tutti i campi. La tesi della morte autoinflitta, con un volo dal balconcino della camera, è avvalorata dall’autopsia: ma non ci sono testimonianze. Anche la Procura di Roma apre un’inchiesta doverosa.
“Sapere chiedere aiuto”
Il mondo del volley italiano reagisce sconcertato e sgomento di fronte a una tragedia davvero troppo grande, anche perché – come detto – inspiegabile. Se la tesi del suicidio sarà dimostrata, come sembra, ci sarà una risposta in più da cercare. Perché…
Bruno Rezende, Bruninho, alzatore due volte campione d’Italia, medaglia d’oro alle Olimpiadi e ai Mondiali spiega perché questa tragedia fa male: “Siamo portati a pensare che gli atleti siano persone in grado di vincere sempre e che non hanno mai bisogno di aiuto. Io quando sono sprofondato nel baratro dell’alcol dopo avere perso l’oro olimpico ci ho messo un anno. I problemi emotivi e psichici sono un tabù, soprattutto tra gli sportivi”.
Bruninho ha raccontato la sua esperienza proprio per aiutare giovani che spesso non sono capaci a chiedere aiuto: “Non c’è nulla di disonorevole nel farsi aiutare e sostenere. Dobbiamo sempre misurarci con le nostre fragilità e allenare la testa almeno quanto il fisico. E poi lo sport deve sempre interrogarsi su quale sostegno e quale attenzione offre a chi vive un momento di difficoltà. Esistono preparatori atletici, fisici, medici sportivi. Il mental coach oggi è una necessità per chi gioca ad alto livello”.
Genovese, classe 1965, giornalista dal 1984. Vive a Milano da 30 anni. Ha lavorato per Radio (RTL 102.5), TV (dirigendo Eurosport per molti anni), oltre a numerosi siti web, giornali e agenzie. Vanta oltre cinquemila telecronache di eventi sportivi live, si occupa da sempre di sport e di musica, le sue grandi passioni insieme a cinema e libri. Diplomato al conservatorio, autore di narrativa per ragazzi.