“Il governo non ha prestato al Paese l’attenzione dovuta, portandolo progressivamente verso un declino economico e sociale”. Susanna Camusso, segretaria nazionale della Cgil, spiega le ragioni dello sciopero generale indetto per il 6 maggio. E a Donne sul Web parla anche del ruolo delle donne, vittime – dice – di un pregiudizio imprenditoriale e culturale frammisto a ignoranza economica. La Fiat? “Non credo che il sistema industriale la voglia inseguire, per il semplice motivo che il contratto nazionale è sì uno strumento per garantire diritti e tutele ai lavoratori ma è anche uno strumento per garantire un’equa competizione tra le aziende”.
Lei è la prima donna salita ai vertici del più grande sindacato italiano, con un consenso plebiscitario. Lo considera un segnale?
La Cgil è e resta una grande organizzazione collettiva. L’elezione di una donna al vertice è frutto della trasformazione della Cgil da un sindacato “maschile” ad una organizzazione di donne e uomini. Una trasformazione determinata dalla lunga attività delle donne, delegate e dirigenti, che hanno nel tempo definito anche forme organizzate autonome ed ottenuto, ormai svariati anni fa, la norma antidiscriminatoria, ovvero che nessuno dei due generi può superare il 60%. E’ un segnale, certamente, ed è la dimostrazione che c’è un altro modo di misurarsi con la libertà femminile e la cittadinanza delle donne.
Per una donna che entra nelle stanze dei bottoni ce ne sono milioni che restano confinate ai piani bassi. Perché il Paese non lascia spazio alle donne?
Vi è un pregiudizio imprenditoriale ed anche culturale, insieme ad una “ignoranza” economica. Il pregiudizio è quello legato in particolare alla maternità e più in generale al lavoro di cura che viene considerato esclusivamente a carico delle donne. Dall’idea quindi che il lavoro di una donna sia condizionato dalla maternità, e in una valutazione errata per cui le competenze non sono misurate in sé ma in tempo disponibile (oltre l’orario di lavoro), se ne trae la conseguenza che le donne sono un costo e non una risorsa. L’ignoranza economica è data dal continuare a ragionare di crescita ed occupazione senza considerare che il lavoro femminile genera distribuzione di reddito e cioè altro lavoro. Si preferisce non considerarlo perché per lungo tempo si è pensato che il welfare fosse un costo da tagliare invece che un fattore di sviluppo. Se il tempo “dedicato” al lavoro è il criterio prevalente per “far carriera” ed il welfare viene ridotto, sono evidenti le ragioni di tante donne alle quali non vengono riconosciute professionalità e competenze.
Qual è il suo giudizio sulla mobilitazione delle donne del 13 febbraio? E’ in atto un cambiamento?
E’ stata una manifestazione straordinaria, imponente. Non ha sorpreso solo la quantità di persone ma piuttosto la diffusione, con la contemporanea presenza di migliaia di persone in tutte le piazze d’Italia e in molte del mondo. E’ stato il segno inequivocabile di un sentire diffuso, una novità anche per il mondo delle donne: una richiesta corale e collettiva per rivendicare dignità. La piazza ha detto basta a un certo modo di guardare al paese così come ci viene rappresentato e non a quello reale, dove invece le ragazze studiano e hanno progetti di vita e dove, più in generale, le donne lavorano, partecipano e decidono. Dove, in una parola, le donne sono cittadine.
Appena insediata ha detto: dobbiamo rimettere al primo posto dell’agenda del Paese il lavoro. Che cosa intende? Il lavoro non è più considerato una priorità?
E continuo a dirlo. Il tema di mettere al centro dell’agenda il lavoro – come priorità strategica per garantire un futuro al Paese – è il punto centrale intorno al quale ruotano le nostre rivendicazioni che sono alla base dello sciopero generale del prossimo 6 maggio. Il governo non ha prestato al Paese l’attenzione dovuta, portandolo progressivamente verso un declino economico e sociale e i suoi comportamenti denotano un degrado morale e civile. Un governo che ha foraggiato gli egoismi, pensando così di fare un favore al suo blocco sociale, e che ha lavorato scientemente alla rottura tra le organizzazioni sindacali e quindi tra i lavoratori. La sfida che abbiamo davanti è quella di promuovere un progetto per il Paese, che passi attraverso la centralità dei giovani e dell’intero mondo del lavoro. Una nuova sfida collettiva, la sola capace di poter garantire ancora un futuro al Paese. Ma la maggioranza in questo momento è orientata su una agenda tutta di palazzo e ha gravi colpe circa lo stato in cui versa l’Italia. Questo è un Paese dalle grandi risorse, avremmo ‘soltanto’ bisogno di un governo all’altezza degli italiani.
I dati di Bankitalia parlano di una disoccupazione giovanile che viaggia intorno al 30%. Qual è il suo punto di vista sullo stato del Paese?
Il Paese ha attraversato, e sta tutt’ora attraversando, una crisi economica e sociale molto grave. Andrebbe ricordato di come all’inizio si tentò di negare la crisi, di dispensare ottimismo come panacea, mentre adesso si leggono i flebili segnali di ripresa come se ne fossimo usciti. E’ mancata cioè una lettura oggettiva della crisi che ha impedito l’adozione di una strategia efficace di contrasto agli effetti che poteva produrre e ha prodotto. Il dato sulla disoccupazione giovanile, insieme a quello sulle donne, è un metro dello stato in cui versa il Paese. Troppi giovani non vedono alcun futuro, hanno una profonda sfiducia in questo Paese e nell’idea che la politica, le istituzioni e lo stesso sindacato non stiano pensando a loro. Per quanto ci riguarda stiamo facendo la nostra parte, anche attraverso la promozione della campagna di “Giovani NON + disposti a tutto”. Proviamo ad invertire una modalità che vede il Paese per intero ancorato al presente per allargare l’orizzonte, per tentare di alzare lo sguardo e usare il presente come agente per il futuro. E cominciare a progettarlo.
Appena insediata si è trovata a gestire il caso Mirafiori, la spaccatura del fronte sindacale, lo scontro tra la più importante industria italiana, la Fiat, e la Fiom, che non ha firmato l’accordo. Si è davvero consumata una svolta nel sistema delle relazioni industriali?
Il tritacarne mediatico, la ricerca del sensazionalismo, caratterizza il dibattito pubblico, ormai da qualche anno, nell’uso e nella forzatura del termine “epocale”. Determinati temi vengono affrontati e trattati come se “nulla sarà più come prima”. Sono delle forzature retoriche che sviliscono il senso e il significato delle parole e che spesso i fatti si incaricano poi di smentire. Noi abbiamo denunciato il rischio di una progressiva balcanizzazione delle relazioni industriali come conseguenza dell’atteggiamento della Fiat. Ma c’è una cosa da dire: Fiat agisce in questo paese come produttore unico. Non credo, infatti, che il sistema industriale voglia inseguire la Fiat per il semplice motivo che il contratto nazionale è sì uno strumento per garantire diritti e tutele ai lavoratori ma è anche uno strumento per garantire una equa competizione tra le aziende. In ogni caso, per evitare una china pericolosa, abbiamo posto la necessità di ristabilire delle regole sui temi della rappresentanza e della democrazia sindacale e cioè in estrema sintesi su come validare gli accordi e su chi è titolato a contrattare in fabbrica.
Natascia Ronchetti
9 marzo 2011
Gioralista economica, e scrittrice. Collabora da anni con il Sole 24ore