Hanno una minore propensione al rischio e non sono insolventi. Eppure le donne che fanno impresa nel rapporto con gli istituti di credito pagano ancora il prezzo di una disparità di trattamento: per loro il denaro costa di più. Una anomalia che ha radici profonde, secondo Paola Sansoni, presidente nazionale di Impresa Donna di Cna, Confederazione nazionale degli artigiani. “E’ un retaggio del passato, quando le donne erano meno presenti nel mondo dell’imprenditoria e prevalentemente con aziende individuali. E’ una realtà che va denunciata. Assistiamo a uno sviluppo delle imprese guidate da donne verso forme maggiormente strutturate come le società di capitali. Ma i tassi di interesse che vengono applicati alle imprenditrici sono più alti di quelli richiesti agli uomini”.
Partiamo da un dato, rilevato da Unioncamere. Le imprese femminili aumentano e resistono meglio alla crisi. A cosa si deve questa maggiore capacità di tenuta sul mercato?
A una molteplicità di fattori. Le donne imprenditrici hanno generalmente una propensione al rischio più bassa rispetto agli uomini. Questo determina una minore esposizione finanziaria e, in un periodo di forte crisi economica come questo, una maggiore tenuta di fronte ai contraccolpi della recessione. Percorrono i canali di accesso al credito, ricorrendo come gli uomini alle banche e ai consorzi fidi. Ma tendono a far leva prima di tutto sulle loro risorse e forze. Contemporaneamente si stanno rafforzando, escono sempre di più dal recinto delle imprese individuali, per evolvere verso imprese maggiormente strutturate. Inoltre tra le imprese femminili il tasso di insolvenza è molto basso. Dato, questo, che viene riconosciuto dagli stessi istituti di credito. Ma a dispetto di queste virtuosità le donne imprenditrici sono discriminate dalle banche, che erogano credito a costi più alti di quelli applicati agli uomini.
Da dove nasce questa disparità di trattamento?
Ci stiamo portando dietro un passato in cui le donne non erano ancora presenti come ora nell’imprenditoria. La situazione può variare da territorio a territorio ma il problema è nazionale. Se l’imprenditrice ha come garante un uomo riesce ad ottenere condizioni più vantaggiose. Una discriminazione inaccettabile che va denunciata. Per questo abbiamo costituito un tavolo politico, a cui siedono tutte le associazioni datoriali, per esercitare pressioni sul Parlamento. Serve una normativa che elimini le disparità. Ma l’approccio deve essere omnicomprensivo. Una buona percentuale di mortalità delle imprese femminili è dovuta a maternità, gravidanza, assistenza agli anziani. E ciò deve essere considerato un problema sociale non un problema delle donne.
Insomma, ancora tanti ostacoli per le imprese femminili…
Sì, nonostante tutti gli economisti concordino sul fatto che l’imprenditoria femminile genera ricchezza e occupazione e il suo sviluppo potrebbe contribuire decisamente alla crescita del Pil. Un altro aspetto da non dimenticare è che le donne imprenditrici tendono ad assumere altre donne. Rappresentano un volano per aumentare l’occupazione femminile. E soprattutto sono in grado di mettere in campo una maggiore flessibilità nella gestione delle risorse umane generata da una forte sensibilità verso le esigenze delle donne che lavorano di trovare un equilibrio tra professione e ruoli di cura. E’ un modo di fare impresa diverso che incide anche sul contesto sociale.
Un nuovo modo di fare impresa che non è sostenuto dalla politica?
Dobbiamo portare all’attenzione della politica e del Parlamento il fatto che il sostegno alle imprese femminili si traduce in un sostegno allo sviluppo dell’economia. Le donne hanno anche una maggiore sensibilità verso la tutela dell’ambiente. Anche questo è un fattore fondamentale: apre nuovi spazi di mercato. La green economy è del resto una delle principali direttrici di sviluppo a livello mondiale. Non stiamo parlando solo di asili nido. Spingere le imprese femminili vuol dire produrre modalità imprenditoriali che generano ricchezza.
Gli ultimi dati sulla disoccupazione in Italia confermano che ad essere maggiormente penalizzati sono i giovani e le donne. L’imprenditoria può anche essere una forma di autoimpiego?
Sì, come dimostra anche l’aumento delle imprese costituite da donne che, licenziate o collocate in lista di mobilità, hanno messo a frutto competenze ed esperienza creando una piccola impresa o entrando nel mondo della libera professione. Il tasso di crescita delle imprese femminili è generato anche dall’autoimpiego, che è una risposta alla disoccupazione.