Donne, lavoro e famiglia. Chi deve fare delle rinunce, lui o lei? C’è chi sceglie di lasciare il lavoro per stare con i figli o per seguire il proprio partner. Abbiamo intervistato 20 donne che hanno fatto scelte diverse.
Donne, lavoro, uomini. Se queste tre parole messe vicine vi suggeriscono associazioni come “disparità” o “ingiustizia”, probabilmente avete un nervo scoperto sull’argomento, e noi abbiamo cercato di approfondire la questione. Non vogliamo però parlare di disuguaglianza di stipendi o machismo in ufficio, bensì di qualcosa che riguarda proprio la prospettiva in cui le donne guardano se stesse come lavoratrici, nel momento in cui è necessario fare delle scelte a beneficio della coppia o della famiglia.
Sono sempre le donne a fare un passo indietro?
Sul piano professionale sono sempre le donne a fare delle rinunce, a fare un passo indietro per agevolare la carriera del partner o per gestire la quotidianità? E se è così, le ragioni dove si trovano esattamente: nei meccanismi del mondo del lavoro o in qualcosa di più profondo, culturale e sociale?
Per capirlo, abbiamo intervistato 20 donne lavoratrici e scoperto tante sfaccettature della questione. Cominciamo dalle situazioni più eclatanti: coloro che hanno acconsentito a cambiare città, nazione o addirittura continente per seguire il lavoro del compagno. Cioè che hanno deciso di rinunciare al lavoro o a una carriera, per amore.
Rinunciare al lavoro per l’amore: “Lascio tutto per te”
Le donne disposte a seguire il partner anche molto lontano da casa si sono rivelate più numerose di quanto ci aspettassimo. Sradicarsi, allontanarsi dalla famiglia di origine e dalle amicizie, licenziarsi o chiudere un’attività avviata sono scelte molto impegnative. A volte questo succede a ragazze che hanno costruito molto nella loro professione, come imprenditrici o lavoratrici autonome.
“Mi avevano proposto un lavoro molto qualificato in Germania, ma il mese successivo avrei dovuto sposarmi e ho rifiutato – racconta Elena, 43 anni -. Per gli anni successivi ho seguito lui in America e in Oriente e, nonostante anche io lavorassi come freelance, la sua carriera è sempre apparsa (a lui per primo) quella ‘importante’. Lui la poneva nei termini del ‘grazie a me hai visto il mondo e non ti manca niente’; è vero, ma mi rendo conto che ho finito per credermi, a torto, meno capace di lui e mi sono lasciata scappare delle opportunità interessanti.”
“Io ho fondato e gestito due nidi d’infanzia, ma ho accettato di lasciare tutto per 3 anni e, insieme a due figli adolescenti, seguire mio marito a Parigi per il suo lavoro” spiega Marina con un sorriso che nasconde bene il sapore della fatica; racconta di come sia stato difficile allontanarsi dagli amici e dai genitori, e accettare di delegare non solo il lavoro, ma la propria presenza come supporto alla comunità di origine. “Ho imparato ad accettare che le cose e le vite delle persone possano andare avanti anche quando non sei lì, senza il tuo aiuto: è stato un percorso emotivamente impegnativo”.
Anche Valeria, energica mamma di due liceali, aveva un’attività bene avviata: “A poco più di vent’anni ho fondato una cooperativa di servizi per l’infanzia che ho guidato per i successivi 15. Poi, di punto in bianco, mio marito è stato trasferito in un posto che ho dovuto cercare sulla cartina geografica, perché non sapevo nemmeno bene dove fosse”. Se le è costato molto, Valeria oggi sembra non dimostrarlo: ha ritrovato un ruolo professionale e si è impegnata in tante attività locali, integrandosi perfettamente e costituendo, poi, un riferimento per altre donne che hanno fatto un’esperienza simile.
Famiglia e dipendenza economica: “Tanto guadagna lui”
Sentirsi secondarie sul piano professionale sembra portare alcune ad accettare di essere dipendenti economicamente. Considerare il bilancio della coppia come un unico calderone in cui ciascuno mette quello che può è naturale e può funzionare, ma a volte si rivela rischioso e controproducente per la parte meno “corazzata”.
Virginia oggi è esperta di cucina naturale, insegnante di yoga e tante altre cose. Ma ieri… “Ero giovane, volevo formarmi, ho lasciato che fosse mio marito quello che portava a casa la pagnotta più grossa: io mi accontentavo del mio scarso guadagno, dato che il bilancio quadrava. Poi ci siamo lasciati, e mi sono trovata con un pugno di mosche: la mia evoluzione personale si è bloccata per anni. Ma ho imparato la lezione: ora ho un nuovo compagno e stiamo sviluppando ciascuno il proprio progetto artistico e professionale in modo indipendente, pur sostenendoci.”
Clara esprime un po’ di amarezza nel raccontare la sua storia. “Eravamo entrambi liberi professionisti, senza alcuna garanzia. Quando sono diventata mamma, con un bimbo che non dormiva mai, sostenere i ritmi di prima era impossibile. Non guadagnavamo abbastanza per il nido, così mi sono sostanzialmente fermata per quasi 3 anni, perdendo molti clienti e mangiandomi tutti i risparmi; è una scelta che rifarei, mio figlio sarà piccolo una volta sola, ma ne sto scontando gli strascichi ora che sono separata”.
Arianna ci confida una situazione più frequente di quanto si possa immaginare. “Il problema è che mio marito è molto all’antica e non vede di buon occhio l’idea che io affidi nostra figlia ai nonni per lavorare. Io però non mi sentivo realizzata: ho deciso di accettare un impiego di poche ore e seguire un corso di formazione, ma non mi sono sentita sostenuta da lui nel mio percorso. Spesso litighiamo per questo e mi spaventa sapere che, dipendendo economicamente da lui al 90%, non potrei permettermi di andarmene, se volessi”.
E se lei guadagna meglio di lui? Dividersi tra aspirazioni, carriera, lavoro e famiglia
Cosa succede se invece quella “in carriera” è lei? L’equilibrio è più facile? Non secondo Adele, che ha avuto molto coraggio: con due bimbi sotto i 3 anni ha accettato un lavoro a tempo pieno in un’altra nazione, mentre il compagno è rimasto in Italia per non perdere un posto da dipendente, in attesa che lei riuscisse a ottenere il trasferimento e tornare a casa. “È stata molto dura, sola con due bambini in una città enorme e sconosciuta, ma ce l’ho fatta. La parte più difficile? Io da allora guadagno più di lui, e questo ha provocato uno squilibrio nella coppia più complicato da gestire di quanto immaginassi”.
Ci offre una prospettiva felicemente diversa Dalila: “Tra i due, sono io quella che ha possibilità fare carriera e infatti cerco di migliorare la mia posizione, ma la cosa non ci è mai sembrata strana. Siamo entrambi dipendenti e siccome mio marito lavora vicino alla scuola è più spesso lui a prendere i permessi per gestire la situazione. A casa ci siamo sempre spartiti equamente il carico e la presenza: nostra figlia ci considera intercambiabili, dalla storia della buonanotte alla coccola quando ha la febbre, non le considera cose ‘da femmina’!”.
Alla domanda se si senta serena a essere una mamma d’azienda, però, ammette: “Lavoro perché è necessario, ma non so cosa darei per esserci quando mia figlia esce da scuola, portarla al parco, aiutarla a fare i compiti!”. E qui dobbiamo chiamare in causa un elemento centrale: dividersi fra carriera e figli non è soltanto una questione di tempo, ma anche di cuore…
Rinunciare al lavoro o rinunciare alla famiglia
Quando sei al lavoro ti senti in colpa perché i bambini sono con la babysitter e la casa è un macello; quando sei a casa ti senti in debito perché potresti lavorare di più; quando ti diverti e ti prendi cura di te stessa, ti senti in colpa verso tutto il resto. Non è forse così per molte di noi?
La questione è molto sottile e difficile da sviscerare: da un lato ci sono questioni culturali, tensioni tipiche di questa epoca di cambiamenti, che ti fanno sentire inadeguata se ti dedichi alla carriera (perché la donna dovrebbe stare al focolare) ma anche se ti consacri esclusivamente alla prole (e l’indipendenza? E il femminismo?), debole se hai bisogno di curare la tua salute. Pesare la componenti del problema è complicato.
Alessandra ha una posizione che non tutte condividono, ma con cui è giusto confrontarsi: “Il punto, per tante donne, non è rinunciare alla propria realizzazione per favorire quella del marito o curare i figli, ma dover rinunciare a una parte importante di sé, essere pienamente madri e mogli, per adeguarsi alle regole di un lavoro che le appiattisce considerandole, appunto, soltanto ‘forza lavoro’. Ma secondo me c’è proprio una differenza strutturale, per una donna il lavoro è solo uno degli ambiti fondamentali della vita: chiedere a un uomo di lavorare fuori casa tutto il giorno è diverso che chiederlo a una donna che ha dei figli”.
Dividersi tra lavoro e figli grazie al part time (ma il part time non c’è)
Quante hanno cercato (magari invano) di ottenere il part time per poter seguire meglio i bambini? Anche Miriam lo ha fatto: “Quando il nostro secondogenito ha avuto 2 anni ho capito che chiedere il part time era diventato indispensabile. Lavoriamo entrambi nella stessa azienda con mansioni e stipendio simili, ma ora che ci penso l’idea che fosse lui a chiedere il tempo corto non è proprio stata presa in considerazione nemmeno da me, come se fosse del tutto scontato che a fare questa scelta debba essere la mamma”.
Tre anni dopo, Miriam ha scoperto di avere un talento trascurato e si è letteralmente inventata un’altra attività come consulente che, a giudicare dalla sua consapevolezza e dall’entusiasmo, ha tutti i numeri per decollare.
“Del resto, in azienda già dopo la prima maternità ho incontrato problemi anche di altra natura: mi guardavano con un certo sospetto, come pronti a cogliermi in errore, e il fatto che usassi i permessi per la malattia dei bambini o chiedessi, appunto, l’orario ridotto è stato visto come una diminuzione di efficienza: mi hanno presto cambiato mansioni relegandomi in un ufficio in cui ero quasi inutile”.
A Giovanna è andata peggio: “Appena rientrata dalla maternità, a tempo pieno, ho scoperto che la mia postazione era stata spostata in quello che era letteralmente uno sgabuzzino, senza scrivania: per loro ormai ero ‘inutile’ e mi hanno fatto un mobbing costante finché non ho gettato la spugna e me ne sono andata”.
“Nei colloqui di lavoro ti chiedono sempre: ha figli? Intende averne?”
Che i datori di lavoro (di entrambi i generi!) siano poco comprensivi verso le esigenze delle donne non è purtroppo una novità. “Sono tante le amiche a cui è stato chiesto di compilare delle dimissioni in bianco: se fossero rimaste incinte avrebbero dovuto firmarle e sparire senza tanti complimenti” denuncia Annalisa, impiegata in un magazzino. “Dopotutto nei colloqui di lavoro la prima domanda che ti fanno è sempre quella: ha figli? Intende averne?”.
“È vero” interviene Carlotta. “Ricordo, all’inizio della mia carriera, un surreale colloquio per una grande azienda. La responsabile, una donna molto simile alla versione giovanile del Diavolo che veste Prada, mi stupì dicendo che avere figli sarebbe stato considerato preferenziale, dato che si trattava di coordinare delle pubblicazioni per bambini. Poi domandò se avevo problemi a lavorare dalle 10 del mattino fino alle 20, a un’ora di macchina da casa. Mi domando quando si aspettava che esplorassi i gusti letterari dei figli che avrei dovuto vantare”.
L’incompatibilità e irragionevolezza di certi orari di lavoro è lampante in molte delle parole delle intervistate. “Io faccio 30 ore. Ottenere i turni al mattino, in modo da poter stare con mio figlio quando torna da scuola, sembra un’impresa impossibile, quando invece basterebbe un po’ di elasticità. Questo mi fa sentire davvero frustrata e poco ascoltata” si lamenta Michela, che di rinunce simili ha dovuto farne tante nel suo percorso professionale. “Se non altro, posso andare a correre!”, ride, e va proprio come il vento, a testa alta.
Fare la figlia, e poi fare la mamma
Il caso di Laura, riccioli biondi intorno a un viso dolce, è particolare e allarga il campo ad altri aspetti importanti della questione, a cominciare dal modo in cui siamo state cresciute. “La parola rinuncia per me ha più a che fare con i miei genitori: dato che mio fratello a 16 anni è andato a lavorare, non hanno voluto pagarmi gli studi per non fare differenze; ma mentre lui era più libero di scegliere io avevo il tacito obbligo di restare in casa fino al matrimonio, quindi mi sono accontentata di quel che ho trovato rinunciando a diverse offerte che mi avrebbero portata via dal paese”
“A 41 anni – continua Laura – con una bimba neonata e un problema di salute con cui convivere, ho deciso di lasciare il lavoro e fare la mamma, seguendo mio marito che era stato trasferito al Nord. Ma per me non è stata una rinuncia, anzi, una scelta consapevole che si è rivelata portatrice di un cambiamento molto positivo nella mia vita”.
Anche per Marinella la prima rinuncia al percorso che desiderava è stata dettata dalle esigenze del nucleo familiare: “La scelta di abbandonare gli studi universitari è stata determinata dal desiderio di aiutare mio padre nella sua attività, che era in forte crisi in quel momento. Ovviamente il fatto di non conseguire la laurea in psicologia, oltre a determinare una serie di limitazioni professionali, mi ha anche costretta a cambiare completamente settore d’interesse e a indirizzarmi verso quella che potremmo definire ‘la seconda scelta’”.
I figli per lei non sono stati un ostacolo a conservare il lavoro, ma a trovarne un altro sì: “Con la crisi del settore turistico, in cui ero impiegata, a un certo punto sono rimasta a piedi e di fatto le possibilità di trovare un posto per una donna over 40 con figli piccoli erano… zero”. Marinella però è una donna brillante e piena di idee e ha saputo reinventarsi creando un piccolo B&B e progettando tante altre cose interessanti.
Donne e lavoro: rinuncia e resilienza
Ad ascoltare tutte queste storie sembra che il nucleo della situazione stia, spesso, nel nostro coraggio: il cosiddetto sesso debole probabilmente è quello in media più portato a saltare senza rete, ad adattarsi al cambiamento e rinascere, ricreando un nuovo nido. E, magari, a perdere un treno per poi scoprirsi più tenaci e creative di prima.
Sara ha occhi brillanti e pieni di progetti: trasferita da qualche anno, studia, lavora e si è impegnata in tante attività collaterali. “A 42 anni ho lasciato tutto: casa, lavoro, amici, famiglia per spostarmi di 600 km e sposare Davide. Non ho un rimpianto profondo, sono felice qui e mi sono costruita una rete di amicizie e cose da fare, ma certamente so che lui non se la sarebbe sentita di lasciare ogni cosa per venire a vivere da me…”.
“Io ho iniziato a seguire il mio compagno per lavoro quando avevo 27 anni” interviene Federica: poliglotta, spumeggiante, una vera forza della natura. “Ogni volta ho dovuto reinventarmi: non solo cercare un impiego ma ricreare delle relazioni, una ‘casa’. Però posso dire che cambiando 4 città in 10 anni ho scoperto la mia resilienza, ho conosciuto persone sempre più interessanti e soprattutto sono stata capace di tenere vicino le persone a cui tengo, anche con tanti km di distanza. Quella è la vera sfida: ricominciare da capo sapendo che devo guardare sia avanti che indietro. Se mi piacerebbe che fosse stato lui a seguirmi? Certo, ma non so se lui ce l’avrebbe fatta bene quanto me!”.
“Una questione di squadra”
Irene è di quelle che non partono: si sta preparando a sei mesi in cui il suo compagno sarà in trasferta in Asia. “Per me è una questione di squadra” dice, “certamente dovrò riorganizzarmi e dovrò rinunciare a qualche lavoretto extra che adesso occupa una parte del mio tempo, ma la considero un’esperienza che porterà beneficio a tutti: lui sarà contento, imparerà cose appassionanti e io saprò che avrà potuto farlo grazie a me; non mi sento lasciata indietro, facciamo tutti questo passo insieme a lui e io mi sento in grado di farlo.”
Anche Francesca si trova in una situazione simile: “Mio marito ha accettato un lavoro lontano da casa. Sta via tutta la settimana, e per poter gestire i bambini che vanno alle elementari ho dovuto per forza ridurre le ore che dedico alla mia attività e, naturalmente, al mio tempo libero. Non dico che sono soddisfatta, mentirei, però in questa situazione di emergenza mi sono scoperta forte come un leone e capace di arrivare dappertutto”.
Donne e rinunce: la società è cambiata, e sta cambiando ancora. E noi?
Proveniamo da generazioni di donne che hanno faticato senza che al loro lavoro fosse riconosciuta la stessa dignità, pari salario, garanzie adeguate. Siamo cresciute respirando, chi più, chi meno, l’idea che è il maschio quello che lavora, la donna al massimo “contribuisce”.
Oggi la società è profondamente cambiata, ma noi siamo davvero pronte a pretendere veramente il nostro posto, la nostra importanza sulla scena? E quando decidiamo di rinunciare a un’opportunità, lo facciamo ascoltando una voce interiore che ci suggerisce di “lasciare andare avanti lui”, o invece perché ci percepiamo più abili nell’adattarci e cercare nuove risorse e gratificazioni rispetto ai nostri partner maschi?
Qualunque sia la risposta, non dimentichiamo mai quanto valiamo e non smettiamo di pretendere ascolto da chi deve creare le condizioni perché tutte le donne possano esprimere al meglio il loro potenziale.
Vedi anche: Donne incinte, i diritti sul lavoro delle donne in gravidanza