“ll mondo di oggi ha bisogno di figure ibride e flessibili che sappiano destreggiarsi e reinventarsi anche in fretta”. Intervista a Alice Soru, CEO di Open Campus
“Le giovani donne non devono rinunciare a sognare in grande”. CEO e fondatrice di Open Campus – laboratorio di Open Innovation nato come spin-off di Tiscali e divenuto oggi realtà indipendente – Alice Soru si occupa di innovazione e trasformazione digitale. Con lei abbiamo parlato della situazione dell’innovazione in Italia, dei percorsi formativi, di cosa abbiamo imparato dalla pandemia, e ancora di smart-workin, south-working e della presenza femminile nel mondo del lavoro.
Intervista a Alice Soru
Ci può spiegare che cos’è l’Open Campus in poche parole e perché per lei è importante?
Open Campus è una realtà di Open Innovation nata nel 2013 a Cagliari come spin-off di Tiscali e divenuta poi un laboratorio di innovazione indipendente, Made in Sardegna e rivolto a tutte le aziende italiane che necessitano di fare un passo avanti in direzione di una trasformazione tecnologica. È stato il primo coworking in Sardegna e il primo operatore in grado di mettere insieme l’ecosistema locale.
Il suo percorso formativo è particolarmente interessante. Come si finisce dalla laurea in archeologia classica a quello che può sembrare quasi l’opposto, ovvero innovazione, tecnologia, in una parola “futuro”?
Per esperienza personale posso dire sono felice di aver cominciato la mia formazione in studi classici e in archeologia, però subito dopo ho deciso di frequentare un Master in Management per l’arte e la cultura, perché mi piaceva l’idea di occuparmi delle ricchezze del nostro territorio in ottica gestionale. Ho lavorato per anni in questo settore in una società di consulenza e poi da lì sono andata a lavorare in un media digitale, dove continuavo ad occuparmi di cultura.
Credo che non sia un percorso così strano, anche oggi mi occupo di cultura digitale tutti i giorni e d’ora in poi ci sarà sempre più bisogno di figure non tecniche, perché quello che serve è un generale cambio di mindset. Si avrà sempre più bisogno di persone con una formazione ibrida, che dal settore umanistico arrivano a lavorare nel digitale.
Qui in Open Campus, ad esempio, abbiamo uno stagista che ha frequentato un Master in filosofia del digitale, un percorso che ti insegna a guardare al futuro digitale con un approccio più umanistico.
Nella tragedia che la pandemia di coronavirus ha portato su più livelli, quali sono le esperienza positive che relative a questo periodo che saranno utili anche in futuro quando finalmente il virus sarà sconfitto?
Quando si tratta di capire che cosa abbiamo imparato da questa triste esperienza si scoperchia un vaso ricchissimo: nell’ultimo anno si è fatto un passo in avanti in direzione della digitalizzazione di almeno 10 anni, se non di più. Si è data una spinta verso qualcosa che non poteva più essere rimandato, specie nel nostro Paese.
Mi viene in mente il mondo del commercio e degli eventi, su cui noi stiamo lavorando con un corso apposito. In particolare, credo che il futuro degli eventi – ma non solo – sarà ibrido e che negli ultimi tempi abbiamo scoperto i tanti vantaggi che questa modalità può offrire. Anche la PA, che quest’anno ha implementato la propria attività digitale (con le app e gli appuntamenti online), ha subito un boost che non potrà che andare avanti.
Secondo lei qual è il futuro di quello che viene chiamato smart-working? E può spiegare cos’è il south-working e perché è importante?
Lo smart-working probabilmente sarà la modalità di lavoro del futuro, perché il fenomeno di remotizzazione del lavoro apre ad una serie di opportunità non soltanto per quanto riguarda il cosiddetto work life balance, ma anche perché permette di fare scelte di vita differenti. Ad esempio, oggi si può decidere di rimanere (o tornare) a lavorare nel proprio paese d’origine, che nel caso dei south-workers è nel Sud Italia, lavorando per aziende con sede altrove, in Italia o all’estero. Se prima si facevano scelte dettate esclusivamente da necessità lavorative, oggi questo scoglio è quasi sempre superato.
Lei è CEO di Open Campus, ma è anche una mamma. Come riesce a coniugare due attività così impegnative?
Faccio come fanno tutte le mamme che lavorano, ovvero organizzandomi la giornata. Da qualche mese la mia bambina è all’asilo e quando non lo è mi divido i compiti con il papà, sempre al 50%.
Ci può consigliare tre libri utili sui temi dell’innovazione e del mondo del lavoro?
“Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano” di Antonio Aloisi e Valerio de Stefano; “Sostenibilità digitale” di Stefano Epifani; “Schiavi del click” di Antonio Casilli.
Il rapporto Consob sulla Corporate Governance delle società quotate nell’ultimo anno ha evidenziato come la presenza femminile nei ruoli apicali è estremamente ridotta, in netta diminuzione rispetto all’anno precedente. Secondo lei le motivazioni di questo desolante panorama sono dovute solo a retaggi culturali?
Credo che questa tendenza negativa dipenda molto dalla crisi economica causata dal Covid, che più degli uomini ha colpito le donne, che spesso hanno dovuto rinunciare al proprio mestiere per occuparsi della famiglia durante il lockdown.
Sicuramente c’è poi una componente di retaggio culturale, anche se adesso vedo tante iniziative che vanno nella direzione opposta, verso un empowerment femminile nel lavoro. In Open Campus stiamo avviando un progetto in proposito, LeaderShe, per la formazione delle giovani donne, per dire a loro che possono sempre aspirare a posizioni apicali, senza dover rinunciare a sognare in grande.
Cosa la rende orgogliosa del proprio lavoro?
Sono orgogliosa del fatto che siamo una piccola società con un team molto coeso e affiatato, due cose che ci permettono di lavorare sulla qualità più che sulla quantità. Siamo poi un team di sole donne con tante mamme, e siamo sempre riuscite ad avere tutte quante una famiglia come volevamo, senza mai trascurare l’aspetto del welfare e le persone.
Sappiamo che è difficile dare consigli ai giovani senza cadere nella retorica o nel paternalismo. Ma proviamoci: che consigli darebbe a un giovane o a un giovane laureata, o che sta per scegliere il percorso universitario, per farsi strada nel mondo attuale del lavoro?
Ai giovani direi di scegliere in base alle passioni il proprio percorso universitario, durante il quale fare tante esperienze anche al di là dello studio, come viaggi e periodi di volontariato in associazioni. L’università ti dà certamente una formazione completa, una cultura, ma solo fuori si è capaci di comprendere davvero qual è la propria strada.
Poi direi loro di non essere rigidi, di non incanalarsi in un percorso forzatamente, ma di lasciarsi sempre aperte tante porte e di abbracciare la possibilità di cambiare. Il mondo di oggi ha bisogno di figure ibride e flessibili che sappiano destreggiarsi e reinventarsi anche in fretta.
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