A dicembre, la giovane Jyoti Singh è stata brutalizzata fino alla morte su un autobus pubblico. Su un treno, nel 2011, la 23enne Soumya è stata rapinata, picchiata, scaraventata giù in corsa e, quindi, stuprata e lasciata morire.
Ma c’è molto di più.
Secondo Save the Children India le violenze domestiche colpiscono oggi più del 68% delle donne indiane. Se le cose stanno così, siamo di fronte a un enorme problema culturale, prima ancora che giuridico.
Partendo da questo assunto, l’agenzia pubblicitaria Taproot’s ha lanciato una campagna di sensibilizzazione che ritrae dee indu abusate.Saraswati, la dea delle arti e della scienza, mostra un occhio nero e uno zigomo spaccato.
Durga, domatrice di demoni, detentrice di un potere maggiore di tutte le divinità maschili indu, sanguina dalla fronte e dalla guancia.Il claim recita: “pregate di non vedere mai questo giorno. Oggi più del 68% delle donne in India è vittima di violenza domestica. Domani, pare che nessuna donna verrà più risparmiata. Nemmeno quelle che noi preghiamo”. La campagna ha già vinto diversi premi internazionali per la comunicazione pubblicitaria.
L’idea di fondo è quella di sfruttare la leva religiosa per incitare al rispetto dei diritti fondamentali della donna.
Il che può sembrare, da una prospettiva occidentale, la resa di ogni ideale di giustizia sociale fondato sulla dignità della persona in quanto tale.
Il concetto non è infatti che l’uomo non debba molestare la donna perché essa appartiene alla sua stessa specie umana e ha dunque un uguale diritto alla propria integrità fisica.
Il messaggio ci dice che la donna non va molestata perché è espressione di una femminilità che – in ambito soprannaturale, cioè tra specie non umane – ha rappresentanti illustri e potenti.
Se al posto della dea Saraswati ci fosse stata una vacca sacra (specie bovina, natura sacra, ma genere comunque femminile) il messaggio non sarebbe stato molto diverso.
La partita quindi non sembra giocarsi sul piano dei diritti dell’uomo, ma sulla pura dimensione religiosa, declinata per giunta non in termini positivi (non picchiare la donna perché è religiosamente Giusto) ma meramente negativo-repressivi (non picchiare la donna perché altrimenti le dee te la faranno pagare). La pena religiosa, qui, assume la sua connotazione classica di sanzione tipica dell’infanzia dei popoli.
Vista in questi termini, appaiono chiari alcuni punti di debolezza di questa campagna.
Il maschio indiano – destinatario di questi cartelloni – che viene incitato a salvare la donna semplicemente astenendosi dal massacrarla, potrebbe osservare che insomma, mia moglie non è mica la dea Durga, potente vincitrice degli asura. Mia moglie non è nemmeno una divinità minore. È solo una povera disgraziata che ha a che fare con le divinità tanto quanto chiunque altro. Se poi il 68% delle femmine viene picchiato a casa vuol dire che la schiacciante maggioranza dei mariti si comporta così, e ci sarà un motivo. E poi se anche il 100% delle donne umane fosse picchiato, cosa c’entrerebbero le dee? Si scherza sempre coi fanti e si lasciano in pace i santi… Etc. etc.
Ho premesso che questo è un punto di vista occidentale, di chi è abituato a credere che il rispetto dei diritti umani debba essere un faro morale per tutti gli uomini e le donne, a prescindere dalle loro convinzioni in tema di religione, e che non è necessario credere in un dio per rispettare l’uomo.
Ma, d’altro canto, è evidente che la comunicazione, in particolare quella mediatica, opera più efficacemente su un piano simbolico ed emotivo che argomentativo-razionale. E quella religiosa è senza dubbio una delle leve simboliche più potenti.
Ho qualche dubbio che l’uso scioccante di elementi soprannaturali in una campagna del genere possa davvero sensibilizzare il pubblico maschile indiano. Ma se così fosse, da un punto di vista puramente pragmatico non potrei esserne che contento.
Vedi anche: Le donne sono naturalmente condannate a subire una violenza senza fine?
Articolo molto interessante 🙂