Ormai è ufficiale: la twitstar più ritwittata al mondo è Papa Francesco.
La conferma, arrivata dall’azienda californiana, è immediatamente rimbalzata sull’Osservatore Romano, organo ufficiale della Santa Sede.
L’esperimento di Benedetto XVI è quindi riuscito, benché gli scettici pensassero che Twitter non fosse roba per il papato e viceversa.
In realtà , il retweet, cioè la riproposizione ai propri follower di un tweet altrui, si sposa perfettamente con quell’idea di “propagazione” della fede che è la finalità fondamentale dello spirito missionario della Chiesa.
Basti pensare che la stessa parola “propaganda” nasce proprio in ambito ecclesiastico (dal nome della Congregazione de Propaganda Fide), e deriva da un verbo latino il cui significato è “far riprodurre una pianta per propaggine”, cioè prenderne un ramo – senza staccarlo dalla pianta madre – e interrarlo per farlo germogliare autonomamente.
Non serve troppa fantasia per vedere la somiglianza tra quest‘antica pratica agronomica e un retweet, che consiste nel “trarre” un messaggio da un account – senza sradicarlo dal suo contesto, ma dichiarandone l’origine – e farlo “germogliare” in un humus fatto di altri lettori.
Per le finalità di “propagazione” della Chiesa, quindi, Twitter appare uno strumento perfetto, molto più efficace, ad esempio, di Facebook. Mentre infatti il social network di Mark Zuckerberg s’incentra sulla relazione tra le persone – pregressa, nella maggior parte dei casi, e comunque esistente anche lontano dalla tastiera del computer – Twitter favorisce la conoscenza di persone e di idee che prima non si conoscevano. A tutto beneficio, volendo, dell’evangelizzazione dei popoli.
Tutto questo era già presente a Ratzinger, nel momento in cui attuò la geniale intuizione di aprire un account ufficiale.
Tuttavia, gli straordinari successi sul web di Francesco dimostrano che il nuovo Papa riesce, su Twitter, ad affascinare anche i non cattolici meglio del suo predecessore. In cosa consiste la forza della sua comunicazione?
Probabilmente nella semplicità e nella potenza evocativa delle immagini che usa.
Prendi, ad esempio, un tweet come “tutti noi siamo vasi d’argilla, fragili e poveri, ma nei quali c’è il tesoro immenso che portiamo“. I 97 caratteri di Bergoglio contengono un’immagine metaforica di grande potenza, sintetica e incisiva come la migliore tradizione della letteratura sapienziale, che spazia dall’Ecclesiaste a Tacito fino a Karl Kraus, passando per una chiara eco di quel Manzoni che lo stesso Bergoglio ha già citato durante la visita a Lampedusa (e in questo tweet cita nuovamente).
Insomma, sembra che il coltissimo gesuita Bergoglio abbia trovato in quel repertorio letterario e in quella profonda e antichissima cultura ecclesiastica il giusto modo di sfruttare il limite del nuovo mezzo.
Del resto va detto che la comunicazione tramite condivisione tipica dei social network è una cifra stilistica di tutte le attività di Papa Francesco. Proprio questa semplicità , che nasce dalla complessità estrema della sua preparazione da anziano gesuita, in pochissimo tempo sembra aver spazzato via dall’infosfera gli scandali dello scorso anno, regalando in poco tempo una nuova immagine alla Chiesa (o quantomeno al suo vertice).
Questa immagine consiste adesso in quella di una formazione sociale malata, come negli ultimi tempi del pontificato precedente, in cui però il nuovo capo, venuto “dalla fine del mondo”, agisce in modo energico e apparentemente spiccio al fine di guarire. Se necessario, anche con interventi drastici sul corpo infestato del “malato”.
Sin dalla scelta del nome, e anche con la sua predicazione telematica, Francesco ha deciso insomma di collocarsi dalla stessa parte dei cattolici più umili, degli uomini della strada. E questa politica, almeno mediaticamente, sta sortendo i primi frutti.