Eticamente inaccettabili. Moralmente da respingere. Ma non basta. I costi economici delle discriminazioni sul lavoro – di genere, di orientamento sessuale o nei confronti di minoranze etniche e culturali – sono altissimi. Parola di Tito Boeri. L’economista, docente all’università Bocconi, dirige la Fondazione Rodolfo DeBenedetti, che per la prima volta in Italia ha messo in cantiere una ricerca scientifica sulle discriminazioni nel mercato del lavoro. “Abbiamo voluto esaminare le varie dimensioni del fenomeno – spiega Boeri-. Da quelle nei confronti delle donne a quelle che provocano una segregazione delle minoranze”. Il progetto è stato diviso in due tronconi. Con il primo i ricercatori della Fondazione hanno esaminato il percorso di un campione di 4500 liceali milanesi, nel loro passaggio dalla scuola secondaria al mercato del lavoro, in una fascia d’anni che va dal 1985 al 2010. Con il secondo troncone della ricerca sono stati inviati 2.500 falsi curriculum a strutture pubbliche e private e ad agenzie di intermediazione: tutti simili, con alcune differenze per quanto riguarda il genere o l’orientamento sessuale, per sei diversi profili professionali. “In ogni curriculum abbiamo inserito anche una foto – prosegue -, per capire come viene tenuto in considerazione l’aspetto fisico”.
Quali sono le novità delle ricerca?
Le novità sono due. Nel primo caso abbiamo esaminato anche il percorso scolastico. Con il secondo filone di ricerca abbiamo fatto per la prima volta nel Paese un’indagine a largo raggio. Volevamo capire come le competenze e le conoscenze sono riconosciute dal mercato in relazione al genere, alla razza, all’etnia e all’orientamento sessuale. Il nostro obiettivo era quello di esaminare il fenomeno delle discriminazioni nel modo più completo. Presenteremo i risultati in giugno.
Sotto il profilo economico quanto costano alla società le discriminazioni?
I costi economici sono altissimi, perché vengono escluse dal mercato del lavoro fasce di popolazione che potenzialmente possono dare un grande contributo alla collettività. Il dato più clamoroso è quello che riguarda le donne, tra le quali la percentuale di laureate è di un terzo superiore a quella degli uomini. Sono più istruite. Ma sappiamo – e ce lo dice il tasso di disoccupazione femminile – come sia difficile per le donne inserirsi nel mercato del lavoro. Un’intera fascia di popolazione viene sistematicamente esclusa.
Tante imprese, però, continuano a fare discriminazioni. Perché, nonostante costituiscano un danno economico?
Ci sono aspetti legati al pregiudizio. Poi c’è un problema di informazione. La rete non ha diminuito sensibilmente i tempi per il reclutamento del personale e non ha permesso nemmeno di trasferire più velocemente tutte le informazioni che non trovano collocazione in un curriculum ma che sono importanti per valutare competenze e conoscenze. Infine spesso i datori di lavoro tendono a basarsi su clichè: guardano ai dati medi, operando quella che viene chiamata una discriminazione statistica. Si crea così un circolo vizioso, con la conseguente segregazione di fasce della popolazione perché ad esempio le donne che sanno di avere più difficoltà nell’accedere a posizioni di rilievo degli uomini, decidono di non competere per questi posti. Poi non dobbiamo dimenticare che c’è un problema culturale. In Italia persiste una immagine negativa delle donne madri che lavorano: questo spinge molte a rinunciare alla professione per allevare i figli.
Tante imprese, però, continuano a fare discriminazioni. Perché, nonostante costituiscano un danno economico?
Ci sono aspetti legati al pregiudizio. Poi c’è un problema di informazione. La rete non ha diminuito sensibilmente i tempi per il reclutamento del personale e non ha permesso nemmeno di trasferire più velocemente tutte le informazioni che non trovano collocazione in un curriculum ma che sono importanti per valutare competenze e conoscenze. Infine spesso i datori di lavoro tendono a basarsi su clichè: guardano ai dati medi, operando quella che viene chiamata una discriminazione statistica. Si crea così un circolo vizioso, con la conseguente segregazione di fasce della popolazione perché ad esempio le donne che sanno di avere più difficoltà nell’accedere a posizioni di rilievo degli uomini, decidono di non competere per questi posti. Poi non dobbiamo dimenticare che c’è un problema culturale. In Italia persiste una immagine negativa delle donne madri che lavorano: questo spinge molte a rinunciare alla professione per allevare i figli.
C’è chi guarda al modello scandinavo come ad un esempio…
Il sistema scandinavo presenta molti aspetti interessanti sul piano del sostegno all’occupazione femminile mentre non ha risolto il problema di altre forme di discriminazione come quelle nei confronti degli immigrati. La Norvegia ha imposto per legge che nei consigli di amministrazione delle società quotate debba esserci una quota del 50% di membri costituita da donne. L’idea delle quote in Italia può essere applicata con successo per dare un segnale importante. Ma solo per una fase transitoria. Le politiche basate sulle quote hanno delle controindicazioni. Oltre a provocare discriminazioni al contrario non permettono di affermare il principio della meritocrazia, in base al quale deve valere solo il merito.
Gioralista economica, e scrittrice. Collabora da anni con il Sole 24ore
La ricerca appare essere estremamente interessante. Però la domanda sorge spontanea, ovvero ad essere discriminati non sono solo le donne, che lo sono da sempre, bensì anche i quarantenni ed oltre .In questo paese non lavorano i giovani è vero , ma neanche i 40enni o 50enni , rifiutati dalla società. Di questo avete tenuto conto?
[quote name=”Lara”]Intervista ottima complimenti al professor Boeri.
ciao Lorenzo, non credi siano pochino le due donne che citi, Marcegaglia e Camusso? Io lavoro nel campo della finanza , sai quanto mi ci è voluto per entrare in questo mondo? anni di sacrifici e di lavoro a costo zero. questa è l’Italia…[/quote]
Ovviamente Lara è poco, ma è sicuramente un passo avanti. Non mi accontento ma è meglio di niente.
Per quanto riguardo la maternità è vero quello che dite, ma è vero anche, purtroppo, che ce ne sono molte che ne approfittano. Lavoro fisso, buon motivo per fare un figlio e mettersi in maternità. Il figlio va fatto con amore, non con un lavoro certo.
Ma è un vizio non femminile, ma italiano che è diversa come cosa.
Innanzi tutto complimenti al prof Boeri per analizzare questi fenomeni sociali .
La discriminazione delle donne nel mondo del lavoro si lega indissolubilmente al tema della maternitá.
Credo che uno dei nodi irrisolti della societá italiana (e non solo) nel suo insieme é come ipotizzare, pensare, pianificare il ruolo di mamme e bambini.
Le aziende escludono preventivamente le donne per paura della maternitá che vedono solo ed esclusicamente come costo e perdono un potenziale di capacitá, creativitá e efficenza che le donne potrebbero apportare.
Poi se si aggiunge l’aspetto culturale atavico che stimola i sensi di colpa verso i figli delle madri che lavorano la miscela diventa veramente demoralizzante.
Decisamente interessante,dove verranno pubblicati i dati della ricerca?
Intervista ottima complimenti al professor Boeri.
ciao Lorenzo, non credi siano pochino le due donne che citi, Marcegaglia e Camusso? Io lavoro nel campo della finanza , sai quanto mi ci è voluto per entrare in questo mondo? anni di sacrifici e di lavoro a costo zero. questa è l’Italia…
Ciao Veronica,
si probabilmente è così, capisco la difficoltà e il senso di colpa per i figli lasciati a casa, ma il discorso del professore è anche indirizzato all’aspetto economico: quanto ci rimette un’azienda a scegliere un uomo al posto di una donna magari più competente e pronta? Molto. Perché ci facciamo influenzare dalla nostra cultura arretrata che una donna non possa fare lo stesso lavoro di un uomo.
A capo delle due più grandi organizzazioni nazionali di lavoro, Confindustria e Cgil, ci sono due donne. Questo è un bel segno.
Ciao lorenzo, per esperienza vissuta visto che ho 52 anni e sono una libera professionista ti posso dire che ancora mi porto dietro il senso di colpa per aver lasciato sempre mio figlio a causa del lavoro. Certo se non avessi avuto le nonne che mi aiutavano oggi non potrei svolgere il mio lavoro. Probabilmente come sostiene il professore è un fatto culturale ma che anche noi donne ci portiamo dietro.
Ciao Caterina, credo che non sia impossibile conciliare il ruolo di madre da quello di lavoratrice. Sicuramente è difficile, ma non impossibile.
Purtroppo l’idea di questa convivenza impossibile risiede nelle menti di chi gestisce il nostro mondo del lavoro, uomini, che hanno un’idea della donna e del lavoro ferma a 100 anni fa.
Solo la sforzo da parte di tutti, e non solo delle donne, potrà permetterci di fare un passo aventi sotto l’aspetto culturale e umano.
Di certo è un fatto culturale, o si è madri o si lavora, conciliare le due cose? Impossibile. Io caro Lorenzo ho smesso di illudermi da molto, passeranno decenni prima di sradicare l’immagine della donna in questo paese.
Complimenti al Prof per la ricerca, iniziativa veramente singolare
Bellissima intervista, complimenti.
Il problema per me è culturale come dice il Professore.
Quando finalmente le nostre aziende capiranno che non importa il sesso del candidato che hanno davanti ma analizzeranno il merito, i risultati, il curriculum e le competenze, finalmente avremo un mercato del lavoro equo, dove le donne sicuramente avranno modo di imporsi.
Non serve, secondo me, creare delle quote minime. E’ aggiungere discriminazione a discriminazione. Nei posti di lavoro e di responsabilità ci deve andare chi merita, a prescindere dal sesso o dalla raccomandazione.
Mi illudo che il nostro paese possa fare questo passo avanti? Forse si…
Ottima intervista complimenti al Professor Boeri per la ricerca.