Intervista a Federica Santini, presidente di Trenord. Con lei abbiamo parlato di innovazione, del settore dei trasporti e del gap di genere nel mondo del lavoro.
Negli ultimi anni le aziende sperimentano sempre di più innovazioni e trasformazioni grazie al concetto di open innovation. Idea introdotta dall’economista Henry Chesbrough, si traduce in un approccio “aperto”, ricorrendo a risorse esterne all’azienda stessa in termini di idee, soluzioni, collaborazioni. Dalle startup alle università o enti di ogni genere. Questo modello ha innegabili vantaggi e anche in Italia si è diffuso in molti settori.
Uno dei casi più interessanti e significativi riguarda l’open innovation applicata ai trasporti, uno dei settori più delicati e complessi. Negli ultimi anni ne ha fatto una bandiera Trenord – joint venture sotto forma di società a responsabilità limitata costituita da Trenitalia e da FNM SpA – guidata dalla presidente Federica Santini. Proprio con lei, 37enne con una lunga esperienza nel settore dell’innovazione, abbiamo parlato di questo e anche di altro. Ad esempio di come il settore dei trasporti si sia adattato alla situazione pandemica globale ma anche di cosa significa essere una donna in un ruolo apicale.
A causa dell’eccezionale situazione pandemica la mobilità ha dovuto adattarsi in vari modi. Anche Trenord, oltre ad aver applicato le misure anti-covid, ha coinvolto e responsabilizzato i propri utenti in modo da viaggiare sicuri. Ci sono delle esperienze relative a questo periodo che saranno utili anche in futuro quando finalmente il virus sarà sconfitto?
L’impatto della pandemia è stato per il nostro settore -come per molti altri comparti- dirompente, sia in termini di modulazione del servizio offerto sia, naturalmente, in termini di impatto economico-finanziario. Al contempo, però, la pandemia ha rappresentato per noi un boost straordinario ad alcuni processi di innovazione che erano già avviati, ma che abbiamo dovuto necessariamente accelerare perché funzionali alla crisi sanitaria.
Una fra tutte, la nostra nuova app, che consente di monitorare i flussi di viaggiatori, lasciando così al cliente la possibilità di operare scelte che aiutino il distanziamento sociale, ma anche molte novità sui processi manutentivi. Tutte iniziative che rimarranno nel nostro patrimonio aziendale anche quando la crisi sarà risolta. E speriamo che accada presto, perché i nostri clienti sono la cosa che più ci è mancata, nei mesi più bui.
Henry Chesbrough definisce l’Open Innovation come “un paradigma che afferma che le imprese possono e debbono fare ricorso ad idee esterne, così come a quelle interne, ed accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche”. Trenord come approccia la ricerca di progetti innovativi?
Facciamo un mestiere antico, siamo pienamente consapevoli del retaggio industriale e culturale molto importante che portiamo nel nostro DNA, e vogliamo rispettarlo, rispettando la grande tradizione della ingegneria italiana ma al contempo innovandola e calandola nella realtà contemporanea.
Per questo scopo, è necessario prendere linfa vitale dall’esterno, che significa certamente collaborare con grandi incubatori di start-up (come Elis o Smau, per citare due esperienze positive), ma anche con atenei, con stakeholder che rappresentino la società civile ma anche ascoltare la voce dei nostri clienti con metodi nuovi, ad esempio con un monitoraggio del web e dei social network teso a capire di cosa ha bisogno e cosa pensa di noi chi viaggia con noi, ed apportare eventualmente cambiamenti o correttivi.
Il mondo dei treni e delle ferrovie è storicamente un mondo al maschile: essere donna è stato un’handicap nel raggiungimento di una posizione apicale?
Sono entrata nel Gruppo Ferrovie dello Stato a 32 anni, come Direttore Strategie di Trenitalia; il più giovane Direttore della storia del Gruppo, mi dicevano tutti, e per giunta donna. Devo dire che la questione del gender -escludendo episodi trascurabili che sono avvenuti durante il mio percorso di carriera- non è mai stata per me qualcosa da considerare un handicap: ho sempre cercato di lavorare per fare in modo che chiunque mi avesse di fronte non vedesse una donna, o una “giovane”, ma una persona competente.
Certo, non sempre è possibile, i pregiudizi esistono, i soffitti di cristallo anche. Penso che sia fondamentale giocare sempre la carta delle conoscenze, ma penso anche che sia fondamentale anche chi incontri sul tuo cammino. Ho avuto la fortuna di incontrare alcuni manager straordinari che hanno creduto in me, e per questo ritengo mio dovere primario dare a mio volta sempre una opportunità a chi la merita.
Il rapporto Consob sulla Corporate Governance delle società quotate nell’ultimo anno ha evidenziato come la presenza femminile nei ruoli apicali è estremamente ridotta, in netta diminuzione rispetto all’anno precedente. Secondo lei le motivazioni di questo desolante panorama sono dovute solo a retaggi culturali?
Certamente i retaggi culturali giocano, purtroppo, un ruolo fondamentale. Se un parziale ribilanciamento delle quote c’è stato in gran parte lo dobbiamo alla legge Golfo-Mosca, ma il percorso è ancora molto molto lungo e certamente impervio. E la questione femminile non risiede solo nella questione della rappresentanza “rosa” nei Cda, anzi, parliamo in fondo di una “bolla” privilegiata: le donne nei board servono anche per rendere migliori le condizioni di accesso e crescita lavorativa di tutte quelle lavoratrici che non detengono ruoli apicali ma a cui deve essere garantita la parità e la capacità di conciliazione vita privata-vita lavorativa.
Più in generale secondo lei il gender gap nel mondo lavorativo – a tutti i livelli, dai ruoli manageriali a quelli subalterni – che direzione ha preso in Italia? Qualcosa sta cambiando? Lei è ottimista?
Sono ottimista per natura, ma una “ottimista oculata”: mi spiego. Non basta pensare che le cose andranno bene perché accada, ma è necessario un impegno quotidiano, una reale e concreta dedizione su questa tematica così cruciale. Penso che ci sia una consapevolezza diffusa che la questione esiste, ed anche che non si tratta solo di “velleitari femminismi” (semi-citando una frase sgradevole che mi sono sentita dire tempo fa), ma di un argomento su cui ci giochiamo -davvero- la crescita dell’Italia. Vale per il gender gap me in generale per tutte le tematiche di inclusione e di tutela della diversità: non fronzoli, ma necessità.
Su questo tema, può dirci qualcosa sull’esperienza del progetto MAAM, Maternity as a Master?
Trenord fa molto per il welfare dei nostre oltre 4000 dipendenti (con la bellezza di 3.700 figli a carico!), e l’adesione al progetto MAAM dimostra la nostra volontà di essere concretamente di supporto alle scelte di genitorialià dei nostri colleghi.
L’idea di fondo è che la maternità (e la paternità) siano esperienze che accrescono le capacità lavorative, anziché comprimerle, e che quegli skill che si apprendono nella crescita di un figlio possono diventare un patrimonio da portare in azienda! Abbiamo esteso questo concetto anche ai caregiver, perché l’esperienza dell’accudimento, ad esempio di un anziano, deve avere lo stesso spazio e la stessa tutela della scelta di diventare genitori.
Cosa la rende orgogliosa del proprio lavoro?
Ogni giorno, e dico davvero, ogni giorno, succede almeno una cosa che mi fa sentire fiera di essere parte di Trenord: la comunità ed il senso di appartenenza del mondo ferroviario sono unici e straordinari.
Sento molto molto forte la responsabilità legata al fatto di essere ai vertici di una azienda che fornisce un servizio di TPL, ma al senso di responsabilità si accompagna un innegabile senso di autentica gioia ogni volta che vedo un treno entrare in stazione e i passeggeri scendere o salire: è la prova che siamo concretamente un pezzetto del loro percorso di vita, che li portiamo al lavoro, a scuola, a casa. Che siamo di aiuto, che siamo servizio pubblico.
© Copyright 20 aprile 2021