I consigli della Dott.ssa Giulia Mori
Da qualche anno, ormai, in farmacia si assiste al seguente dialogo:
“Signor Gialli, il suo medico le ha prescritto un farmaco su cui dovrà pagare un certo ticket, ma se vuole ne esiste anche una versione generica che non le comporta nessuna spesa.”
“Ma è uguale al mio?”
“C’è dentro lo stesso principio attivo allo stesso dosaggio, quindi è esattamente uguale al suo.”
Il paziente molto spesso si lascia convincere, poi però torna a casa, osserva quella scatoletta così diversa da quella cui è abituato e, seppur a malincuore, prende la “nuova” medicina e molto spesso dopo un paio di giorni torna dal suo medico dicendo che ha l’impressione che quella medicina non funzioni come l’altra che ha sempre preso, e che vuole una nuova prescrizione per poter finalmente prendere la sua solita pillola.
I farmaci, come tutte le cose che presentano una loro unicità, sono soggetti a brevetto. I brevetti, però, non sono eterni e dopo un certo numero di anni scadono e quella cosa che era protetta dal brevetto e che quindi non poteva essere prodotta da nessun altro se non il proprietario del brevetto stesso, può essere a questo punto prodotta liberamente da chiunque. La stessa cosa vale per i farmaci. La legge stabilisce, però, che un farmaco generico deve essere “bioequivalente” al prodotto originario. Cosa significa questa parola? In poche parole che biologicamente deve fare lo stesso effetto.
E poco importa se c’è una piccola differenza di composizione. Molte volte gli informatori scientifici ci vengono a dire che è un rischio per la salute del paziente prescrivere farmaci che sono lievemente differenti nella composizione, che magari fanno meno effetto e questo si riflette sul paziente a cui viene cambiato in farmacia il farmaco originario con quello generico. Molte persone, infatti, sono abituate ad una determinata scatola, ad una forma specifica di compresse, ad un rituale terapeutico che viene improvvisamente stravolto e che quindi disorienta il paziente. E quindi molte volte si ha l’impressione che il farmaco generico faccia meno effetto.
Questa mentalità a me lascia molto perplessa. La mia perplessità nasce dal fatto che nessun paziente a cui ho prescritto fin dall’inizio farmaci generici di cui non sia noto il nome commerciale per pubblicità o passaparola (la nimesulide, ad esempio), si è poi lamentato dell’efficacia del farmaco stesso. Questo mi lascia ben sperare sulla reale bioequivalenza dei farmaci generici. In parole povere e concretamente parlando io credo che la legislazione italiana in materia di farmaci sia abbastanza severa da garantire che i farmaci generici siano effettivamente uguali a quelli originari. E questo con un effettivo e reale risparmio sia per il paziente sia per la sanità pubblica. Negli ultimi anni, poi, non sono stati tolti dalla fascia gratuita molti farmaci come invece accadeva regolarmente ogni anno prima che cominciassero a scadere i brevetti e fosse introdotto il principio che viene concesso dal sistema sanitario nazionale, solo il farmaco immesso in commercio al prezzo minore. Di tutti gli altri il paziente paga la differenza.
Vorrei infine fare un discorso etico: Molti farmaci, prima che scadesse il brevetto della molecola, costavano il TRIPLO, di quanto costano dopo tale scadenza. Allora mi chiedo: a prescrivere il farmaco originario, ci guadagna veramente il paziente?
8 febbraio 2010 – Dott.ssa Giulia Mori