Come l’Argentina, molti anni dopo. Quando il Paese sudamericano andò in bancarotta la classe media precipitò nella povertà. Eppure il debito pubblico non era alle stelle, non aveva raggiunto il picco del 150% del Pil (1.900 miliardi) che ha piegato Atene e spaventato l’Europa. Sempre sul baratro oggi la Grecia paga un prezzo ancora più alto all’impreparazione di una classe politica che per anni ha nascosto la polvere sotto al tappeto, truccando i conti. Mentre, in fondo, l’Europa si limitava ad osservare. Oggi per le strade della capitale greca corre la disperazione. Letteralmente. Un terzo dei negozi ha abbassato le saracinesche, i supermercati sono vuoti, le mense dei poveri sono piene, gli scioperi generali si susseguono senza sosta. La classe media è già stata falcidiata, con il crollo del 40% del potere d’acquisto, tra riduzione dei salari e nuove tasse. E le grandi manovre del premier Papandreu, manovre lacrime e sangue su richiesta dell’Europa e soprattutto della Germania per sbloccare gli aiuti ed evitare al Paese ellenico la bancarotta, piombano su una popolazione sfinita che, nonostante tutto, in larga maggioranza non vuole uscire dall’Europa, vuole mantenersi in area euro, evitare il ritorno alla vecchia dracma. Ma a quale prezzo? A tutto c’è un limite, dicono i greci, mostrando le tasche penosamente vuote a una Ue e a un Fondo monetario internazionale che chiedono altri sacrifici. Più di così non vogliono – forse non possono – fare. La povertà si porta sempre dietro un aumento della criminalità, a danno si aggiunge altro danno: come essere risucchiati da una spirale. L’anno scorso i furti sono aumentati del 30%, le rapine del 132, le truffe del 56. Un altro effetto collaterale di un default che è già nei fatti, come sostengono le agenzie di rating. Che incombe dietro l’angolo, minaccioso come uno tsunami, ma ancora neutralizzabile secondo Bruxelles. Certo, il Governo ha incassato l’accordo con le banche, i creditori privati, per una ristrutturazione del debito. Una boccata d’ossigeno. Ma la forsennata selezione innescata dalla grave crisi finanziaria ha nettamente diviso la società in due: per i grandi capitali c’è comunque la salvezza, la stragrande maggioranza della popolazione sperimenta il pericoloso avvicinamento all’indigenza. Non si salvano i dipendenti pubblici. Troppi – sono 800mila – in un Paese di appena 11 milioni di abitanti, anche se nessuno, fino a poco tempo fa, aveva avuto il coraggio di ammetterlo. Ora tutti i nodi vengono al pettine e nello sfacelo c’è chi ricorda come la Grecia abbia per troppo tempo vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Le forbici del Governo hanno tagliato affilatissime la pubblica amministrazione, riducendo drasticamente la spesa. La disoccupazione viaggia sul 17%, il doppio rispetto a tre anni fa. Il 2011 si è chiuso con un Pil a – 5,5%, non andrà molto meglio quest’anno, visto che è stimato un ulteriore ribasso del 2,8%. Eurostat dice che solo nel 2013 si assisterà a un ritorno alla crescita. Sempre che la Grecia abbia la forza e il coraggio di resistere. Sempre che non prevalga la rassegnazione: meglio il fallimento, meglio ricostruire tutto dalle macerie, piuttosto che accettare una vita di sacrifici per altri vent’anni almeno. Ma a quel punto quale sarebbe il prezzo che dovrebbe pagare l’Europa?
Gioralista economica, e scrittrice. Collabora da anni con il Sole 24ore