Default non significa che una nazione muore o non esiste più ma che dovrà radicalmente tagliare le sue spese (pensioni, ammortizzatori sociali, stipendi pubblici).
La parola default è un di quei termini inglesi che abbiamo imparato a fare nostro e, purtroppo, a conoscere. In senso economico significa letteralmente “difetto, mancanza” ed è diventato sostanzialmente sinonimo di “fallimento”. Nelle ultime ore abbiamo assistito al secondo default di una nazione che pochi anni fa è già passata da quella terribile esperienza, l’Argentina. Sgomberiamo subito da un equivoco: una nazione che va in default, che “fallisce”, non smette di esistere come un’azienda che fallisce: per lei “fallimento” equivale a profonda ristrutturazione delle sue spese e della sua organizzazione, in sostanza significa un taglio radicale della propria possibilità di spesa.
Cerchiamo di capire un po’ meglio di cosa si tratta e che conseguenze potrebbe avere se qualcosa del genere avvenisse anche da noi.
Che cos’è e come avviene il default di una nazione
Immaginiamo di tracciare due colonne su un foglio, una con gli incassi e una con le spese. Gli incassi di una nazione sono sostanzialmente dati da tasse, imposte, cessione di beni o da prestiti. Un po’ come avviene per una famiglia che guadagna dallo stipendio (in questo caso lo “stipendio” di una nazione è il gettito di tasse e imposte dirette e indirette), se vende qualche bene proprio (ad es. la casa; per lo stato possono essere aziende pubbliche, immobili di stato, concessioni ecc.) o se richiede un prestito alle banche (nell’esempio dello stato se mette sul mercato titoli di debito pubblico, come i buoni del tesoro). È chiaro che rispetto a questa ultima opzione a fronte di soldi che arrivano se ne dovranno ridare indietro un po’ di più negli anni successivi. Quel “un po’ di più” sono gli interessi e rappresentano fonti di passività nei conti.
Ora come una famiglia può perdere il lavoro, così una nazione può vedere ridursi i gettiti che riceve dalle sue tasse. Quando parliamo di Pil (Prodotto Interno Lordo) e crescita in sostanza alludiamo a quanto una nazione è in grado mantenersi e arricchirsi. Se il Pil non cresce, o addirittura diminuisce, significa che conseguentemente anche i gettiti fiscali ristagnano o crescono troppo poco.
Inoltre una nazione ricorre abitualmente ai prestiti che ripaga con interessi determinati dal mercato. Se per riuscire a vendere un buono del tesoro devo promettere interessi molto alti significa che in giro non c’è molta fiducia rispetto alla mia situazione. Era quello che avveniva solo poco tempo fa quando tutti eravamo in balia dell’incubo spread. I nostri tassi di interesse erano a livello record perché altrimenti nessuno ci avrebbe comprato i titoli di stato stessi, cioè ci avrebbe fatto un prestito.
Ora la connessione scarse prospettive di crescita e interessi alti su debiti pregressi già alti è la spirale alla base del rischio di “fallimento”: guadagno meno o uguale a prima, spendo di più per i miei debiti. Il rischio diventa ancora più grave se non riesco a tagliare le mie spese “ordinarie”, cioè tutto quello per cui lo stato mette mano al portafoglio: salari dei lavoratori pubblici, spese di gestione di ospedali, scuole, infrastrutture ecc.
Quando non si è più in grado di ripagare un prestito (o non si riesce a negoziare una riduzione, cosa stava tentando di fare l’Argentina), si va in fallimento. A quel punto si aprono scenari in parte prevedibili, in parte meno.
E se capitasse un default all’Italia?
Lo stato che finisce in default non solo non riesce a ripagare i debiti passati (che restano pendenti) ma avrà enormi difficoltà a finanziarsi nell’immediato futuro. Nessuno acquisterà i suoi titoli di stato a meno di promettere interessi altissimi. La liquidità potrà arrivare dall’aiuto internazionale, vedasi ad es. gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale dati sempre alla Grecia. Ma questi soldi arrivano soltanto in presenza di tagli e sacrifici enormi. Nel breve periodo lo stato, che è anche un grande “datore di lavoro”, avrà difficoltà a sostenere il peso dei salari dei suoi dipendenti e a saldare le fatture dei suoi fornitori.
A questa condizione di sofferenza si aggiungerà ovviamente la coda dei debitori con cui ci si dovrà accordare per ristrutturare e rateizzare il debito, cioè pagarne solo una sua percentuale.
Le banche stesse si troverebbero in portafoglio titoli di stato enormemente svalutati, senza i relativi interessi, con possibili conseguenze sulla liquidità a breve termine. In presenza di gestione poco oculata dei media della situazione (leggasi diffusione di panico oltre quanto sarebbe necessario) i correntisti potrebbero cercare di prelevare i propri soldi tutti insieme con ulteriore aggravamento del problema stesso di liquidità.
Altri effetti immediati potrebbero essere tagli alle pensioni e al numero dei dipendenti pubblici e agli ammortizzatori sociali che vedrebbero radicalmente diminuire i fondi a disposizione.
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