Il contratto a tutele crescenti sarà una delle (probabili) novità della riforma del lavoro: 3 anni in cui si potrà essere licenziati. Ma porterà reali benefici?
Contratto a tutele crescenti, contratto di inserimento a tutele crescenti, contratto unico a tutele crescenti: sono formule che stanno incominciando a circolare in questi giorni nell’ottica di quella grande riforma del lavoro, chiamata anche job act, più volte annunciata ma di cui spesso si fatica a comprendere i reali provvedimenti in cantiere.
Questa nuova tipologia di contratto pare sarà introdotta per due categorie di età ben precise: giovani sotto i 35 anni e persone over 50. Lo scopo è chiaro: tentare di alleviare il peso della disoccupazione per due fasce di età pesantemente colpite dalla crisi.
I recenti dati Ocse (Employment Outlook) sono impietosi a riguardo: nella fascia di età sotto i 25 anni in Italia 4 persone su 10 sono senza lavoro. Il dato è ancora più pesante se raffrontato a quello del 2007 quando la percentuale era esattamente della metà (20,7%). Inoltre più della metà degli under 25 ha un contratto atipico o precario.
Cosa sono i contratti a tutele crescenti
Partiamo dall’obiettivo di questa nuova forma contrattuale: rendere meno rigido il sistema introducendo sostanzialmente una possibilità di “libero” licenziamento. Detto in altre parole: si vuole sospendere l’applicazione dell’articolo 18 per queste fasce di età , rendendo libera la licenziabilità (e quindi più facile l’assunzione) per i primi tre anni di contratto. Passato questo primo periodo si parla di “incentivi fiscali” per trattenere il dipendente nella forma “normale”.
Meno diritti = più lavoro?
La domanda è lecita. Certamente l’esperienza tedesca dei “minijob”, cui vagamente pare ispirarsi questa riforma, ha dato posti di lavoro, anche se temporanei e sottopagati. Ma si dirà : meglio di niente.
Cosa sono i minijob? È la possibilità di essere assunto per brevi e brevissimi periodi ad un massimo di 400 Euro al mese di paga. Lo stipendio spesso viene integrato con gli aiuti sociali o diventa un secondo stipendio o un’integrazione per alcune categorie (ad esempio gli studenti).
In Germania ci sono 7,3 milioni di occupati di questo genere e il dato dei minijob ha influito (secondo alcuni, ha “drogato”) quello della disoccupazione. Questi lavori oltre ad essere pagati poco ed essere temporanei sono esentasse per il datore di lavoro. E non ci sono ferie e malattie retribuite.
Il caso degli stage
Ovviamente il nuovo contratto proposto in Italia non è così radicale come i minijob tedeschi ma ci chiediamo se una forma “facilitata” di ingresso nel mondo del lavoro diventerà mai una stabilizzazione futura.
È il discorso simile che si può fare sugli stage: spesso sono incentivati dagli enti locali ma al periodo di lavoro “formativo” (e quasi sempre non pagato) quante volte subentra la regolare assunzione, anche in presenza di bonus e incentivi fiscali per il datore di lavoro?
Dati Cgil in questo caso dicono che se nel 1999 gli stage (chiamati tirocini all’epoca) erano solo 7500 davano però stabilizzazione alla fine a quasi la metà degli stagisti. Nel 2007 gli stage erano passati a quasi 50.000 con però una percentuale di successiva stabilizzazione del 28%. Il rapporto Excelsior di Unioncamere per il 2012 parla di oltre 206.000 stagisti dei quali sono stati assunti solo 27.830, una percentuale poco superiore al 10%…
Il rischio insomma è quello di un effetto simile anche per questo nuovo contratto “a tutele crescenti”. Cioè essere tenuti per il tempo in cui le tutele non ci sono e non vederle mai “crescere” perché non rinnovati contrattualmente alla fine di questo periodo.
Anche qui; molti penseranno meglio essere assunto con rischio di essere lasciato a casa che niente. Certamente è un punto di vista rispettabile in un periodo di crisi come l’attuale: tutto sta a capire se questo genere di provvedimenti sono modi di raschiare il barile o interventi che hanno in potenza un reale effetto sostanziale sull’economia.