Artemisia Gentileschi è stata una delle pittrici più importanti del Seicento. Un periodo in cui le donne pittrici si potevano contare sulle dita di una mano. Da giovane subì uno stupro e l’anno dopo dipinse un’impressionante scena dove un uomo viene sgozzato. Ecco la storia di una donna tormentata e dotata di grande talento.
La parola arte ce l’aveva addirittura nel nome. E sicuramente nel sangue, dato che Artemisia era figlia di Orazio Gentileschi, pittore pisano influenzato da Caravaggio. Nella bottega del padre Artemisia fece notare da subito il suo enorme talento, dimostrandosi più dotata dei suoi fratelli. Nell’ambiente romano Artemisia trovò gli stimoli giusti per intraprendere una carriera di pittrice, dato che viveva in un quartiere di pittori ed è probabile che conobbe personalmente Caravaggio.
Ma la vita di Artemisia, nonostante nacque e si formò nell’ambiente giusto, non fu mai facile. In quanto donna aveva maggiori difficoltà dei suoi colleghi uomini nel farsi prendere sul serio come artista. La sua prima opera è del 1610: all’epoca aveva solo 17 anni e dipinse “Susanna e i vecchioni“, sebbene non furono in pochi a sospettare che al pennello ci fu anche la mano del padre. Forse perché all’epoca sembrava impossibile che una donna – specialmente così giovane – fosse dotata di tanto talento.
Ma nel 1611 accade qualcosa che influenza non solo la vita di Artemisia e forse il suo stile pittorico, ma anche l’immagine che ancora oggi si ha di questa artista. Nel mese di maggio viene stuprata da un pittore, Agostino Tassi, un collega del padre. Il processo che ne seguì è fondamentale per ricostruire la vita della pittrice, anche se spesso ne ha offuscato le sue doti artistiche. Gli atti del processo colpiscono per la crudezza e per i metodi del tribunale: Artemisia, nonostante fosse la parte offesa, dovette deporre le accuse sotto tortura, tramite schiacciamento dei pollici. Un danno non da poco, per una pittrice. Ma questo non la fermò.
Nel 1612 Artemisia dipinge quello che è considerato da molti il suo capolavoro e che secondo alcuni va letto in chiave psicanalitica. Il quadro, un olio su tela, è “Giuditta che decapita Oloferne” e dimostrebbe il desiderio di vendetta di Artemisia nei confronti della violenza subita l’anno prima. Il dipinto è ancora oggi impressionante per la violenza e il realismo che colpiscono chi lo ammira. Attualmente è conservato al Museo Capodimonte di Napoli.
Negli anni successivi Artemisia si sposta da Roma a Firenze – dove viene accettata nell’Accademia delle Arti del Disegno, fatto insolito per una donna – poi di nuovo a Roma e successivamente a Venezia. Sono anni di successo: il suo talento viene riconosciuto e Artemisia dipinge diverse tele importanti, come “Giuditta con la sua ancella”, “Conversione della Maddalena” e una nuova versione di “Giuditta che decapita Oloferne” (conservata a Palazzo Pitti, Firenze).
Ma la vita di Artemisia, nonostante nacque e si formò nell’ambiente giusto, non fu mai facile. In quanto donna aveva maggiori difficoltà dei suoi colleghi uomini nel farsi prendere sul serio come artista. La sua prima opera è del 1610: all’epoca aveva solo 17 anni e dipinse “Susanna e i vecchioni“, sebbene non furono in pochi a sospettare che al pennello ci fu anche la mano del padre. Forse perché all’epoca sembrava impossibile che una donna – specialmente così giovane – fosse dotata di tanto talento.
Artemisia nel 1630, all’età di 37 anni, era ormai un’affermata pittrice, quando si decise di spostarsi a Napoli, dove rimase per alcuni e anni ed entrò in una nuova fase artistica. In seguito raggiunse il padre in Inghilterra dove, dopo anni, si ritrovarono a collaborare insieme alla decorazione di un soffitto. Il padre morì poco dopo.
Nel 1612 Artemisia si era sposata con il fiorentino Pierantonio Stiattesi, da cui aveva avuto quattro figli. La sua figura di donna pittrice, indipendente e tormantata, che rappresentava con sublime bellezza la violenza e l’erotismo dei corpi, è arrivata fino ai giorni nostri.
La vita e l’arte di Artemisia hanno ispirato libri e film, tra i quali segnaliamo “Artemisia. Passione estrema” del 1998. Curiosità: esiste un asteroide che si chiama Artemisia, proprio in onore della Gentileschi.
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