Per i greci è uno spauracchio da anni. Una specie di Belzebù che con la sua ostinazione sul rigore dei conti li ha trascinati in una spirale di pesantissimi sacrifici, tanto che molti ormai non considerano più una vera e propria catastrofe nemmeno il ritorno alla dracma. Gli italiani hanno cominciato da un po’ a temerne vivamente la testardaggine. Degli spagnoli, che chiedono aiuto per risollevarsi, non ne parliamo. Quanto ai francesi affidano ad Hollande il compito di ammorbidirla. Da qualsiasi punto di vista – e angolazione geografica la si guardi – Angela Merkel è riuscita nell’impresa di farsi detestare un po’ da tutti. Mentre sono in corso i summit per salvare dal baratro la moneta unica e proteggere l’Eurozona dagli speculatori in agguato nei mercati finanziari, lei tira dritto senza tentennamenti in una Germania capace di dispiegare tutta la sua forza economica e politica per non trasgredire la regola del risanamento dei bilanci pubblici. La Germania, in anticipo sulla tabella di marcia, ha praticamente raggiunto il pareggio dei conti. E la Merkel vede come fumo negli occhi la possibilità che in Europa torni a spirare un vento keynesiano, vale a dire che prevalga una politica che in nome della crescita economica autorizza un pesante intervento della mano pubblica e soprattutto l’indebitamento. Tanto che oggi in Europa, di fatto, si scontrano frontalmente due scuole di pensiero: una è quella di Berlino, tutta imperniata su un teutonico rigore; l’altra è quella dei Paesi periferici, ma anche della Francia di Hollande, che tenta di recuperare la lezione di Keynes, adattandola al contesto di una Europa sempre più in crisi, esposta al pericolo di un contagio dei debiti sovrani e alle intemperie dei mercati. Solo che la Germania ha i conti in ordine, mentre molti altri Paesi della galassia euro, Italia in prima fila, devono confrontarsi con deficit da profondo rosso e con un debito pubblico alle stelle. Cosa che, fuori dalla Germania, testardamente aggrappata alla bandiera del risanamento, viene vista, e non senza ragioni, come la manifestazione da parte dei tedeschi della volontà di difendere prima di tutto i loro interessi, con buona pace dei vicini di casa ma anche della sospirata unità . Certo, qualche nocciolina ogni tanto la Merkel la butta, aprendo spiragli per un negoziato. Ma non transige sugli eurobond, vale a dire sulla mutualizzazione dei debiti. E non molla la presa sulle riforme strutturali e l’intransigenza. Dietro alle belle parole sull’integrazione dell’Europa si nascondono le perplessità di Hollande – che dalla Merkel vorrebbe avere un po’ più di solidarietà per i Paesi in difficoltà – e la nemmeno tanta velata irritazione del premier italiano Mario Monti, che la stagione delle riforme l’ha avviata ma auspica anche una spinta per far ripartire l’economia, oltre a uno scudo anti-spread, con una politica di gestione comune del mercato dei titoli sovrani. Comprensibile, visto che i balzi nel differenziale di rendimento tra Bpt e Bund, espongono l’Italia al pericolo di un avvitamento del debito. Invece la Merkel insiste sulla necessità che i Paesi dell’Eurozona rinuncino a un pezzetto della loro sovranità sottomettendosi a un controllo europeo dei loro bilanci. E non ci sta a correre in aiuto delle economie più deboli. Le posizioni sembrano inconciliabili, lo strapotere della Cancelliera di ferro sempre più impermeabile alle pressioni internazionali. Per capire il ruolo che gioca la Germania basti rammentare che Mario Draghi, l’ex Governatore della Banca d’Italia, per ottenere la presidenza della Banca centrale europea non fece mistero di essere, per così dire, affezionato al rigore. Lo stesso Draghi oggi si muove – diplomaticamente e autorevolmente – dietro le quinte per smussare gli spigoli.