Studiare per trovare lavoro. Anni passati sui libri, rinunciando ad uscire con gli amici, o anche a un po’ più di soldi in tasca. Studiare, però, è soprattutto una scommessa sul proprio futuro. Sono questi, in sintesi, i pro e contro di studiare fino alla laurea. Ma studiare conviene? E perché le donne sono sempre penalizzate?
I dati Eurostat mostrano che “studiare conviene” perché rende più probabile trovare un lavoro: nel 2011 in media nell’Ue lavorava l’86% dei laureati contro il 77% dei diplomati. “In Italia, tuttavia, studiare conviene meno: per i laureati tra i 25-39 anni, la probabilità di essere occupati era pari a quella dei diplomati (73%) e superiore di soli 13 punti percentuali a quella di chi aveva conseguito la licenza media”. Aveva sottolineato nei mesi scorsi il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco.
Il livello di istruzione dei giovani è “ancora distante da quello degli altri paesi avanzati. Questo è particolarmente grave”. Visco segnala poi in Italia un “analfabetismo funzionale” caratterizzato da competenze inadeguate, sottolineando la necessità di investire in “capitale umano”.
Proviamo a guardare altri dati. Secondo l’elaborazione del Centro Studi L’Unione Sarda su dati Istat, dal 2004 al 2012 è diventato sempre più difficile trovare un’occupazione con la sola licenza elementare o anche con la licenza media, invece le probabilità rimangono pressoché invariate con un titolo di studio superiore. Ovviamente non si fa cenno alla corrispondenza tra tipologia di lavoro e grado di istruzione, è quindi possibile che un laureato si adegui a fare un lavoro da diplomato pur di lavorare, ma le informazioni a disposizione non sono sufficienti per affermarlo.
Le donne laureate sono penalizzate
Ok, va bene. Questo discorso è generico. Si parla dell’universo dei laureati. “Ancora oggi le donne sono penalizzate – spiega il professore Andrea Cammelli, direttore e fondatore di AlmaLaurea -. E’ un segnale di un forte arretramento culturale e civile del Paese rispetto all’obiettivo di realizzare una partecipazione paritaria delle donne al mercato del lavoro”.
Il divario occupazionale tra laureati e laureate e le differenze retributive segnalano quanto ancora le donne, in questo caso quelle più istruite (quasi 210 mila laureate di tutti i tipi di corso indagate ad uno, tre e cinque anni dalla laurea), siano ancora penalizzate nel mercato del lavoro.
In termini occupazionali, le differenze di genere tra i laureati magistrali biennali (3+2), già ad un anno dalla laurea risultano significative (7 punti percentuali: lavorano 52 donne e 59 uomini su cento). Le donne risultano meno favorite non solo perché presentano un tasso di occupazione decisamente più basso, ma anche perché si dichiarano più frequentemente alla ricerca di un lavoro: 35% contro il 27% rilevato per gli uomini. A cinque anni dal conseguimento del titolo le differenze di genere si confermano significative e pari a 7,5 punti percentuali: lavorano 79 donne su cento e 86,5 uomini su cento. I vantaggi della componente maschile sono confermati a parità di gruppo disciplinare.
Donna con figli: il divario aumenta
Il differenziale di genere, quando si considera la presenza o meno di figli, a un anno dalla laurea raggiunge i 17 punti tra quanti hanno figli (il tasso di occupazione è pari al 44% tra gli uomini, contro il 27% delle laureate), mentre scende fino a 10 punti, sempre a favore degli uomini, tra quanti non hanno prole (tasso di occupazione pari al 49% contro il 39%, rispettivamente). A cinque anni dalla laurea il differenziale, lungi dal diminuire, aumenta toccando i 25,5 punti percentuali tra quanti hanno figli (il tasso di occupazione è pari all’89% tra gli uomini, contro il 63,5% delle laureate), mentre scende fino a 7,5 punti, sempre a favore degli uomini, tra quanti non hanno prole (tasso di occupazione pari al 83,5% contro il 76%, rispettivamente).
Anche nel confronto tra laureate, chi ha figli risulta penalizzata: a un anno dal titolo lavora il 39% delle laureate senza prole e il 27% di quelle con figli (differenziale di oltre 12 punti percentuali). A cinque anni dal titolo il differenziale si mantiene sullo stesso livello (oltre 12 punti percentuali): lavora il 76% delle laureate senza prole e il 63% di quelle con figli.
Le responsabilità della politica
“Forti sono le responsabilità in termini di politiche a sostegno della famiglia e della madre-lavoratrice, soprattutto perché dai dati appena citati si evidenzia con forza lo scarto occupazionale esistente tra le laureate, a seconda della presenza o meno di figli” commenta Andrea Cammelli.
Considerando la tipologia dell’attività lavorativa le differenze si confermano elevate. Infatti, ad un anno dalla laurea gli uomini possono contare più delle colleghe su un lavoro stabile (le quote sono 39 e 31%). A cinque anni dalla laurea il lavoro stabile diventa una prerogativa tutta maschile: può contare su un posto sicuro, infatti, il 79% degli occupati e il 67% delle occupate.
Le differenza di genere si confermano anche dal punto di vista retributivo. Un’analisi approfondita, che ha tenuto conto del complesso delle variabili che possono avere un effetto sui differenziali retributivi di genere (percorso di studio, età media alla laurea, voto di laurea, formazione post-laurea, prosecuzione del lavoro precedente alla laurea, tipologia dell’attività lavorativa, area di lavoro, tempo pieno/parziale), mostra che a parità di condizioni gli uomini guadagnano in media, ad un anno dalla laurea, 90 euro netti in più al mese, che salgono a 172 euro a cinque anni dalla laurea.