Bologna è sotto shock. Nei bar, nelle strade, nel Palazzo Comunale, vedi ovunque le stesse facce: incredule, attonite, addolorate. Dagli assessori ai passanti, dai negozianti ai dirigenti di partito, dalle mamme con le carrozzine ai suoi avversari politici. Un filo rosso di sgomento li unisce e un’unica grande domanda: “Perché?”. Perché Maurizio Cevenini, consigliere regionale e comunale del Pd e affermato uomo politico, ha deciso di togliersi la vita? Perché proprio lui che era il personaggio più amato e popolare a Bologna ha deciso di lanciarsi da una finestra delle Torri della Regione in totale solitudine?
La gente non si dà pace. Maurizio Cevenini per i bolognesi era un’istituzione. Non era diventato sindaco perché aveva dovuto abbandonare la corsa alle ultime amministrative, colpito da un episodio di ischemia. Per i cittadini, però, era comunque lui il vero sindaco, quello che stava in mezzo alla gente, che amava la sua Bologna sopra ogni cosa, così come la sua famiglia; che partecipava alla vita cittadina con ritmi da stakanovista, presenziando con gioia ed entusiasmo a tutti gli eventi: dall’arrivo del Presidente Napolitano in città, alla lotteria alla Festa dell’Unità, dove estraeva personalmente i numeri. Dallo stadio, dove seguiva in ogni partita in casa il suo amato Bologna (e spesso anche in trasferta), fino all’evento, anche il più umile, al quale i cittadini lo invitavano. Poteva essere anche la sagra delle castagne ma dove i bolognesi richiedevano la sua presenza, lui si precipitava. Se c’era qualche fabbrica in crisi di sicuro lo trovavi lì, a confortare e a supportare i lavoratori. Per i bolognesi era sempre lì, pronto a elargire un saluto, un sorriso, una fetta del suo tempo prezioso. E ci sentivamo tutti più tranquilli, quando lo vedevamo: sapevamo che la città c’era e che lui la custodiva.
Lo chiamavano tutti affettuosamente il “Cev”. Era così grande la sua popolarità che alle ultime elezioni amministrative aveva preso il massimo delle preferenze in Italia. Deteneva anche il record di matrimoni celebrati: più di 3.000. Gli piaceva sposare le persone e tutte le giovani coppie, italiane e straniere, volevano essere unite in matrimonio da lui, nella bella Sala Rossa di Palazzo D’Accursio dove non lo vedremo più, sorridente e garbato, leggere agli sposi le formule di rito. Quando finiva la celebrazione accompagnava sempre i nuovi coniugi a visitare l’Aula del Consiglio Comunale e gli mostrava orgogliosamente gli scranni dei consiglieri che hanno fatto la storia di Bologna. La sua Bologna.
Con noi giornalisti era sempre affettuoso e gentile. Ma non perché ricercava la fama. Ma perché rispettava il lavoro di tutti e soprattutto anche chi non la pensava come lui. Perché la signorilità e la cortesia, ma soprattutto l’umanità, facevano parte del suo modo di essere.
Quando iniziai ad occuparmi di politica, i primi tempi, come tutte le cose nuove, era dura. Alcuni politici (e anche qualche collega) erano troppo compresi di sé e ti salutavano a malapena, altri non si ricordavano di te perché eri un volto poco noto nei palazzi del potere. Mi sentivo un po’ un pesce fuor d’acqua. Ma quando incontravo lui mi sentivo sempre nel posto giusto. Gli era bastato vedermi una volta per salutarmi con affetto e sempre con un sorriso. Si fermava immancabilmente a fare due chiacchiere. Se il lavoro ti andava male si informava sulle tue sorti e non si negava mai al confronto con i lettori, eludendo le tue domande.
Tanti dicevano che come politico non aveva “spalle abbastanza larghe”. Anche all’interno del suo partito, il Pd, che qualche delusione gliel’ha data perché non sempre ha riconosciuto il suo valore. Ma le sue spalle, in realtà, erano larghissime: reggevano tutti i bolognesi, che ora sentono un vuoto enorme. Che non potrà essere colmato. Perché non c’è nessuno uguale a lui. Bologna non lo dimenticherà mai.
Addio “Cev”.